Dave Holland, è forse oggi il miglior contrabbassista in ambito jazzistico, non solo a livello strumentistico, ma anche e soprattutto quale musicista, bandleader, studioso, compositore, in grado di sviluppare percorsi originali e idee nuovissime in ambito post-free, dopo essersi lasciato alle spalle la pur significativa militanza elettrica nel gruppo di Miles Davis: è il trombettista ad ascoltarlo in un club londinese e a volerlo subito con sé nel 1969. Se Richard Cook e BrianMorton nel loro ormai classico Jazz Recordings inseriscono Conference Of The Birds (1972) di Holland tra i capolavori assoluti, un motivo ci sarà: Dave è davvero un riferimento costante del jazz contemporaneo, come dimostra anche il nuovo cd Aziza, da cui inizia il discorso per una riflessione sincera, appassionata, illuminante.

Su Aziza infatti Holland racconta: «Nel 2014 abbiamo iniziato a pensare al progetto: Chris Potter mi parlò di un possibile tour nel 2015 assieme agli altri due musicisti (Loueke e Harland). L’idea mi piacque subito, perché insieme pensammo alla combinazione di tutti e quattro gli artisti. Io avevo suonato con tutti loro – presi singolarmente – ma mai assieme. Il concetto è stato subito quello di band collettiva: non ci sono ruoli primari o secondari; ognuno ci mette il proprio talento, le proprie idee. Sin dalla prima prova ci siamo confrontati sulle nostre rispettive musiche e abbiamo deciso cosa farne. Dopo un primo tour, abbiamo sentito che l’energia era buona e abbiamo registrato». Questo collettivismo rispecchia d’altronde la filosofia musicale di Dave, per il quale il linguaggio delle sette note è sempre, al contempo, interazione e dialogo: «Bisogna fare in modo che ‘succeda qualcosa’ quando si suona con altri musicisti: perché un costrutto musicale abbia senso e fisionomia, è necessario che la disposizione all’ascolto sia aperta e forte. Ma contemporaneamente bisogna anche che i singoli artisti abbiano grandi individualità, spiccate personalità con tanto da dire».

Del resto individualità e personalità non sono mancate negli ascolti del contrabbassista bambino, quando il sound afroamericano inizia a spopolare anche nel Regno Unito: «La prima musica che ho sentito veniva dalla radio, come è normale per la mia generazione. All’epoca si sentivano molte big band (avevo intorno ai 6 anni); ma ricordo anche che crescendo ho ascoltato molto rock’n’roll e r’n’b. Il primo disco di jazz l’ho preso in mano a 13 anni e da lì ho iniziato l’esplorazione di un mondo. E mi sono formato sul primo jazz di New Orleans».

Dal Dixieland al contrabbasso per Dave il passaggio è breve, anche se in parte casuale: «Sostanzialmente l’ho scelto perché mi piace lo strumento! Ho iniziato suonando un po’ di tutto: l’ukulele, la chitarra, il banjo. Poi da ragazzino mi sono trovato a suonare in una band che a un certo punto si trovò senza bassista. ‘Ok, faccio io’ dissi. E ho cominciato, senza smettere più. Del contrabbasso amo il suono, e anche il suo ruolo nella musica d’insieme. La ritmica sembra sempre sia in secondo piano, invece se manca o non funziona, nessun insieme funziona più». Non a caso, la playlist di grandi musicisti per Holland non fa differenze tra bandleader e contrabbassisti, avendo in Ray Brown, Leroy Vinnegar e soprattutto Charles Mingus i suoi referenti assoluti. Ma Holland non è il tipo nostalgico che guarda al passato, anzi sulla musica di oggi è persino molto ottimista: «Il momento musicale, checché se ne dica, è molto florido. Il jazz è fluido, ovunque oggi si possono ascoltare giovani che sono vere forze della natura.

Il jazz, poi, ha un suo percorso: quando suoni jazz devi avere profondo rispetto per chi suona con te e, se non sei così anche nella vita, suonare diventa difficile». Attualmente concentratissimo sul tour mondiale, domani sera sarà con il gruppo a Cormons nell’ambito di Jazz & Wine Peace Festival. Dave infine regala un’anticipazione: «Mi dedicherò, tra le altre cose, a un nuovo trio che ho in mente, con Kevin Eubanks alla chitarra e Obey Carver alla batteria».