Il decreto del presidente della Repubblica che ha fissato data e quesito del referendum costituzionale, ma anche la decisione dell’Ufficio centrale della Cassazione che ha ammesso il referendum sul titolo del disegno di legge Renzi-Boschi, sono insindacabili. Lo ha deciso ieri la seconda sezione bis del Tar del Lazio, respingendo per difetto assoluto di giurisdizione il ricorso presentato dal comitato liberale per il No e dai senatori Loredana De Petris (Sinistra italiana) e Vito Crimi (M5S).

La decisione dei giudici amministrativi è giunta dopo tre giorni di camera di consiglio. Le motivazioni non si fermano alla valutazione formale del decreto del presidente della Repubblica, contro il quale gli avvocati Palumbo, Bozzi e Vasques avevano presentato ricorso sostenendo che il testo del quesito si presta a orientare la scelta degli elettori verso il Si. I cittadini, infatti, si troveranno davanti, è ormai noto, il titolo della legge costituzionale, che parla di riduzione dei parlamentari, contenimento dei costi e superamento del bicameralismo paritario. Obiettivi e speranze più che fatti certi, mancando del tutto il riferimento alle concrete modifiche operate su 47 articoli della Costituzione. Il Tar ha riaffermato che il decreto del presidente è un «mero recepimento» del testo validato dalla Cassazione, e quanto alla data – il 4 dicembre – della decisione del Consiglio dei ministri.

Il presidente della Repubblica, è noto, è politicamente «irresponsabile» dei suoi atti che non per nulla sono controfirmati dai ministri. Il Tar aggiunge che i suoi atti sono insindacabili per la legge, ma appunto non si ferma qui. Risale fino all’Ufficio centrale della Cassazione e qualifica anche questo come organo «rigorosamente neutrale, terzo e indipendente». Che agisce «nella prospettiva della tutela dell’ordinamento generale dello stato», dunque anch’esso non può essere soggetto a giurisdizione. Così solennemente qualificata, la natura dell’Ufficio centrale resta ambigua, posto che appena pochi mesi fa ha negato l’accesso e il controllo pubblico delle firme raccolte dal comitato del Sì autoqualificandosi come istanza giurisdizionale, vincolata alla segretezza.

Resta il problema del referendum su un quesito unico che chiede un Sì o un No a una riforma assai complessa (che va dall’abolizione del Cnel alla trasformazione del senato fino alla riduzione delle competenze delle regioni). Sul punto sono ancora in piedi almeno tre procedimenti giudiziari: un altro davanti allo stesso Tar del Lazio presentato dall’ex vice presidente della Corte costituzionale Valerio Onida (si discuterà il 16 novembre, a venti giorni dal voto) e due davanti al giudice civile di Milano, il più recente ancora di Onida, il più avanti nella trattazione invece degli avvocati Tani, Bozzi e Zecca (ai quali si è aggiunto Besostri) – proprio ieri si è tenuta un’udienza e la giudice si è riservata di decidere (probabile che attenderà il 27 ottobre quando sarà trattata anche la causa Onida).

In tutti questi ultimi casi il tentativo è quello di portare davanti alla Corte Costituzionale la legge del 1970 sul referendum, in modo da farla pronunciare sulla legittimità del quesitone unico (già esclusa dalla stessa Corte per il referendum abrogativo).

E proprio il Tar ieri ha detto che l’Ufficio centrale della Cassazione avrebbe potuto autonomamente sollevare la questione di costituzionalità quando ha esaminato le ultime richieste di referendum, tutte (ad eccezione di quella dei radicali che però non ha raccolto le firme necessarie) basate sul quesito unico. Ma la Cassazione non l’ha fatto. E adesso, spiega l’avvocato Palumbo, «stiamo valutando la possibilità di un atto di revocazione che riapra quella strada. Non può esistere un atto amministrativo sottratto a tutte le magistrature del paese».