Il paese dove gli alberi volano è Holstebro la casa dell’Odin Theatret, che è nato a Oslo nel 1964 ma solo due anni dopo si è spostato laddove è ancora oggi. Ideato da Eugenio Barba e da un gruppo di attori «ribelli» non era semplicemente una compagnia teatrale ma un mondo, uno spazio di ricerca artistica e di vissuti nel quale il teatro prendeva forme «meticce», mescolava esperienze e culture di tutti i continenti spodestando l’unicità della scena occidentale per mettere al centro una creazione collettiva. Il corpo, l’incontro con le forme teatrali del mondo, i gesti e la poesia del «popolo segreto», Bali e il Khatakhali, l’India, l’America latina, il sud dell’Italia, il Salento – Barba è nato a Brindisi – i riti e la magia.

Gli attori crescono fuori dalle accademie (anzi il nucleo fondatore dell’Odin con lo stesso Barba non era stato ammesso alla scuola di teatro di Oslo), lo spazio teatrale è uno spazio politico e di vita, in cui l’arte è ancora un’arma con cui provocare la realtà. L’Odin è stato riferimento per molte generazioni di artisti – Pippo Delbono è cresciuto, come dice sempre, tra l’Odin e Pina Bausch – ed è ancora lì, punto di approdo per molti ragazzi di tutti i paesi. Però non è la storia dell’Odin quella che ci racconta Jacopo Quadri in questa sua nuova incursione nel teatro, stavolta insieme a Davide Barletta, in Il paese dove gli alberi volano – Eugenio Barba e i giorni dell’Odin, presentato tra i progetti speciali delle Giornate degli autori. E nemmeno un ritratto di Barba anche se è lui a guidarci tra le molte attività dell’Odin, nelle sale e nei luoghi di prova, tra le mostre e gli uffici, le attese degli ospiti e le discussioni in quella che un tempo era una vecchia fattoria e oggi appare come un villaggio.

Il film è il secondo capitolo di un viaggio personale del regista sulle tracce del padre, il critico teatrale Franco Quadri, tra gli studiosi più sensibili in Italia delle nuove teatralità, e come nel precedente dedicato a Luca Ronconi (La scuola d’estate), sceglie di mantenere una «distanza» seppure intima rispetto al suo soggetto. È anche qui la vita al lavoro la lente attraverso cui viene narrato l’Odin, non un tracciato «storico» o una riflessione «critica» – e del resto solo con un punto di vista estremamente parziale ci si può confrontare con un’esperienza che ha modificato in profondità il teatro – ma la vita di tutti i giorni in un’occasione speciale: la festa per i 50 anni del gruppo.

Seguiamo così Barba nelle sue pienissime giornate, lettere, prove, quel gruppo di danzatori africani scopre per la prima volta il balletto classico. Movimenti, respiro, luoghi del corpo. Vestiti come in una fiaba popolare, altri attori ripetono, la fisarmonica li accompagna. Qualcuno suona il violino, un gruppo che arriva per ricordare un amico, era uno degli attori dell’Odin, Augusto, ucciso a Salvador in casa: «Un trauma» dice Barba.
Cosa significa oggi tutto questo? Cosa rimane di quest’esperienza, ha ancora un senso, una sua necessità, un presente o è stata assorbita dal tempo, dai mutamenti storici, culturali? Il film sembra cercare ma con discrezione i segni di questa resistenza, e la vitalità di un progetto che affiorano nelle voci degli attori storici come Roberta Carrer o Tage Larsen, e in quelle dei giovanissimi, in chi si occupa degli aspetti organizzativi o in chi insegna e negli allievi, insomma in ognuno o dei componenti di questo processo che lo rende appunto unico.
Se nel film precedente Ronconi ci veniva raccontato in una dimensione a tratti persino intima, lontana anche se vi era completamente immersa, dal palcoscenico, dalla prove dei suoi spettacoli, nel confronto con gli attori della scuola di Santa Cristina, anche qui lo spazio è unico, ma i frammenti i sono moltiplicati proprio per la natura collettiva del lavoro. L’Odin ci appare nel su