Il governo somiglia a un club di sciamani. Evoca in suo soccorso forze misteriose per arginare la presenza del male (il terribile zero) che non sa come affrontare con politiche efficaci. Il ministero dell’economia, con le sue danze propiziatorie, gioca con i numeri e anticipa una crescita inesistente. Tocca all’Istat rimettere le cifre in ordine e confermare, nei giorni di Cernobbio, che la ricetta del governo dei bonus è miseramente fallita. Dopo «63 governi dormienti» Renzi si vantava di aver restituito velocità, vigore, ottimismo. Rivendicava persino un ritrovato contatto con la felicità. «Quando attaccano Happy days non lo fanno perché si sentono lontano da Fonzie, ma perché si sentono lontani dalla felicità», diceva Renzi. E però, dopo tre anni di potere vissuti secondo l’hashtag «Italia col segno più», i numeri sgonfiano un chiacchiericcio che produce ormai più irritazione che consenso.

Sebbene abbiano una grande pazienza, i nudi fatti, a un certo punto, si infastidiscono dinanzi a una overdose di comunicazione deviante per la quale la realtà è solo un fastidio e «il vittimismo è un ostacolo alla crescita». Strattonati, i fatti reagiscono alla dittatura dell’ottimismo per decreto.
Senza opposizione e controllo, il governo riesce nell’impresa di affondarsi da solo, con l’incontinenza del suo cinguettio infinito che opera nel mondo del presso a poco. Le sue metafore, spacciate per fascinosa ipermodernità, cominciano a stufare anche i più distratti consumatori di spot che si infastidiscono dinanzi alla strafottenza del governo via tweet («si scrive legge di stabilità, si pronuncia legge di fiducia»). Il pubblico, sebbene indotto dai media alla passività, avverte che la narrazione delle «buone notizie» non corrisponde al vissuto reale. E per questo sente una crescente avversione per un potere che, anche dinanzi alle tragedie, gioca alla fabbricazione di pure trovate linguistiche, come Casa Italia, o in mezzo alle macerie pensa alla prenotazione di incontri mitici con archistar.
Una forma espressiva ricorrente della retorica renziana è quella che scandisce «è finito il tempo». L’intenzione del potere è di rimarcare l’eccezionale portata innovativa del governo del fare. Ogni campo sfiorato dalla mano magica dello statista gigliato diventa incredibilmente fertile. Una svolta epocale si registra ovunque il novello uomo del destino abbia deciso di intervenire, naturalmente con la sua proverbiale velocità di pensiero ed energia corporale.

E, in effetti, qualcosa di epocale nell’azione di governo c’è. Ma non è quella raccontata dalla narrazione («La Quaresima è finita», fantasticava un titolo di Repubblica), che viene trasmessa a media unificati: è o no l’Italia negli ultimi posti nella classifica mondiale della libertà di informazione? Il tempo è finito in senso letterale perché, per la prima volta, si inverte un ciclo storico lungo che ampliava le aspettative di vita. La spesa pubblica per la sanità, e per la prevenzione delle malattie, registra negli ultimi anni un decremento significativo, con conseguenze inevitabili sulla qualità della vita. Mentre il triangolo dell’Etruria dedicava un triennio dell’attività parlamentare per escogitare misure forzate utili a prolungare artificialmente la durata delle legislature e prefigurare gli esiti delle elezioni, la vita delle persone si contraeva senza rimedio. Un nesso tra fuga del pubblico e insicurezza si avvertiva anche nei rapporti di lavoro, abbandonati alla deregolazione della volontà padronale chiamata Jobs Act.

Anche qui «è finito il tempo» della costante contrazione delle morti bianche. E dopo 15 anni di regolare diminuzione, nel 2015 le morti sul lavoro crescono di oltre il 16,5%. Sarà che l’Italia riparte (o come si esprime la ministra Boschi «ha riavviato i motori»), ma per 1.172 lavoratori il tempo è finito per sempre nel dannato 2015.

È «finito il tempo» in cui cresceva la propensione allo studio. Dieci anni fa 73 diplomati su 100 si iscrivevano all’università. Oggi solo 49 su 100 sfidano lo scetticismo del ministro Poletti sul valore dello studio, soprattutto quello che si chiude con lode. Con il 23% di giovani con laurea (metà dei francesi) l’Italia è alla coda dei paesi europei nella scolarizzazione, altro che fandonie sulla generazione Erasmus.

Il governo ora invoca la flessibilità nei bilanci («i soldi me li prendo. Punto»), ma lo fa per distribuire bonus elettoralistici, per trasferire gli scarsi fondi pubblici alle imprese (decontribuzioni, tagli Irap: «Ancora sgravi per chi assume, meno di prima però, affrettarsi prego»), togliendoli ai servizi collettivi e alle politiche industriali. Oltre che inique (niente Tasi per tutti) e antisociali (nessun bonus agli incapienti), le politiche populistiche dell’esecutivo (un neolaurismo che ha appreso le fresche tecniche del marketing pubblicitario) sono del tutto inefficaci.

Mentre l’Europa dichiara guerra alle miliardarie evasioni fiscali del colosso americano dell’informatica, Renzi suole farsi riprendere a palazzo Chigi con una mela, che non è quella che sollecitava la curiosità di Newton («Sono stato denunciato da una associazione consumatori perché uso il Mac e dicono che faccio pubblicità occulta. Ragazzi, una camomillina, una tisana e passa la paura»). Quali sono le potenze che sostengono questo ceto politico della piccola borghesia toscana che dalle rive dell’Arno si accasa nella capitale e che prima sfrecciava con la bici e poi vola con il nuovissimo sup-jet?

All’ombra del Credito fiorentino e di Banca Etruria, dei consigli di amministrazione delle filiali locali, è nato il temibile potere costituente del partito della nazione che, con appoggi massicci e coperture illimitate, pone le basi della terza repubblica. Una palude di scambi, intrighi, ambizioni che accumula influenza nei giornali, nelle società controllate e partecipate, nella Tv e però ha un fondamentale difetto: abile nell’uso delle slide, non sa governare. L’improbabile timoniere annuncia che «l’Italia prosegue la lunga marcia». Verso la catastrofe.