Per la notte elettorale di giovedì ci vorrebbe un sismografo. Terremoto è la parola che meglio descrive l’esito di queste elezioni politiche, le più incerte da decenni a questa parte: in tanti hanno perso non la casa, ma il lavoro. Leader politici soprattutto: Ed Miliband, Nick Clegg, Nigel Farage. E anche i sondaggisti. Nessuno si aspettava un risveglio così bluastro, il colore dei conservatori: nemmeno loro. L’affluenza alle urne è stata del 66.1%, di poco sopra al 65.1% del 2010. Più alta in Scozia, al 71.1%. Una maggioranza Tories di 335 sui 326 seggi necessari (+24 rispetto al 2010) surclassa pienamente i magri 232 (-26) del Labour di Ed Miliband. Incredibile l’exploit dello Scottish National Party a 56 deputati (+50). Falcidiati, i Lib-Dem di Nick Clegg sono a 8 (-49).

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Tra i tanti trombati eccellenti il bevitore seriale di pinte Nigel Farage, che porta a Westminster un solo deputato euroscettico. Che non è lui.

È stata la notte della mirabolante vittoria di Cameron-Superciuk – l’eroe del fumetto Alan Ford che ruba ai poveri per dare ai ricchi – che si è visto rinnovare il premierato stavolta senza nemmeno doverlo dividere con chicchessia. Un sogno neoliberista tra l’erotico e il pornografico che contrasta in modo spietato con il destino splatter che attendeva il Labour in Scozia, spazzato via dal ciclone indipendentista di Nicola Sturgeon, e con la pulizia parlamentare che ha colpito i Lib-Dem di Nick Clegg, praticamente l’unico nel suo partito a non perdere il proprio seggio.

Solo al calar della sera, ci si accingeva a malincuore a prendere le misure di una situazione di stallo politico alla quale né il Paese, né il suo sistema elettorale sono abituati. Ma gli opinion polls su cui si costruisce la babele di chiacchiere che accompagna i tour elettorali si sono rivelati un bidone. La prospettiva di una coalizione, anzi il suo prosieguo, che ci si aspettava sarebbe emerso dallo spoglio, si è smaterializzata in un baleno. Già verso metà nottata i Tories di David Cameron erano il primo partito. Ma già dopo una manciata di ore era chiaro che la vittoria appariva più rosea dell’incarnato del leader. Inaspettata e sostanziale, seppur con una maggioranza sottile.

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Trionfa lo Scottish National Party

È il fenomeno più eclatante, e l’unico pronostico ad aver funzionato. Benedetto dalla sconfitta recente al referendum sull’uscita dall’Unione, il partito di Alex Salmond e dell’attuale leader e primo ministro scozzese Sturgeon ha strappato in pochi mesi le profonde radici del Labour nelle Highlands. Jim Murphy, il leader laburista messo lì da Miliband in extremis, aveva un compito impari: riparare la crescente cesura tra il partito, sentito come ormai un’entità remota e anglocentrica, e l’elettorato scozzese, preoccupato per le devastazioni del welfare perpetrate dal duo Cameron-Osborne. Il protezionismo culturale ed economico promesso dai nazionalisti è parso più rassicurante dei tentennamenti di Miliband in fatto di tagli. Il leader uscente laburista non si è dichiarato fino in fondo contro l’austerity e ha pagato un prezzo carissimo: Murphy ha perso il seggio, lui ha dato le dimissioni, il partito è scomparso dalla regione. Ora Sturgeon premerà su Cameron perché mantenga le promesse fatte sull’incremento della Devolution, che comprende indipendenza fiscale, la libertà di fissare il salario minimo e maggiore libertà nella previdenza sociale.

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Il tonfo dei Lib-Dem

Tra gli storici del partito Liberaldemocratico sarà ricordata come la notte del Grande Incubo, particolarmente dopo che qualche commentatore alla fine della campagna elettorale aveva cominciato a pensare che Clegg avesse qualche chance, dopotutto. Ago della bilancia? Ci ha creduto fino in fondo, in un training autogeno durato tutta la campagna elettorale. No, l’elettorato lo ha punito con la ferocia di un dio del vecchio testamento. Non gli ha perdonato le promesse da marinaio sulle tasse universitarie, certo, ma soprattutto non gli ha perdonato di aver fatto in questi cinque anni da scendiletto ai conservatori. Quella che lui ha sbandierato come responsabilità nei confronti degli interessi del Paese è parsa ai più il freddo calcolo di un ambizioso che voleva giocare al vice-premier. Non solo Nick, la sua visione cosmopolita, filoeuropeista e aperta, sono storia: lo è anche il partito. Di tutti i discorsi d’addio il suo è stato il più fisicamente doloroso. Difficile capire chi potrà sostituirlo. Mancano fisicamente i canditati.

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L’amaro calice di Ed Miliband

Era difficile, per Ed Miliband, rovesciare le sorti di un partito profondamente danneggiato dall’eredità del New Labour di Blair, un partito associato all’untuosità nei confronti dell’alta finanza, alla spesa pubblica e al deficit demonizzati così efficacemente dai Tories e quindi dalla crisi nel suo complesso. Un partito che ormai non poteva tornare indietro alla famosa clause IV dell’Old Labour e che quindi doveva assestarsi su una bizantina “terza via della terza via”, un costrutto tanto complesso quanto evanescente. E che ha condotto il partito a fare peggio del 2010 con Gordon Brown. Ora ci sarà un redde rationem: gli orfani del fratello David, pugnalato alla schiena, insorgeranno con i loro “te l’avevo detto” e lo stesso faranno quelli della sinistra del partito, scontenti dell’amletico andirivieni sull’austerity e soprattutto sulla riluttanza a prendere posizione contro il sistema missilistico nucleare Trident, che guarda caso si trova in Scozia e non in Inghilterra. Ma soprattutto, nonostante un timido progresso d’immagine degli ultimi scampoli di campagna, Miliband non è riuscito a presentarsi come leader credibile sull’economia, cavallo di battaglia dei Tories che sono riusciti in questo a continuare a presentarsi come dei prudenti tecnocrati anziché gli sguaiati ideologhi che in realtà sono. Possibili successori? Andy Burnham e Yvette Cooper. Forse Tristram Hunt. Tutti della generazione di mezzo. Meno probabile il più giovane Chuka Umunna.

Dunque niente traslochi a Downing Street: disorientano troppo Larry the Cat, il felino-inquilino che resta al numero 10, come David e la sempre sorridente Samantha, una First Lady mesta e sorridente come ce n’erano una volta. All’estasi di Cameron corrisponde la disperazione più nera di una serie impressionante di top bananas dei vari partiti, che in questo sistema elettorale a-democratico hanno perso i propri seggi: gente come il Lib-Dem Vince Cable, ex-business secretary, il laburista Ed Balls, ministro ombra delle finanze e braccio destro di Ed Miliband, Jim Murphy, leader Labour in Scozia, Danny Alexander, Ministro Lib-Dem del Tesoro, e Douglas Alexander, pronto a servire come ministro degli esteri in caso di vittoria Labour. È stato surclassato da Mhairi Black, una ventenne dell’Snp, la più giovane deputata dai tempi di Cromwell. Anzi da prima.