Per dire addio non ha scelto l’abito scuro. Ha indossato un completo argenteo che sotto i riflettori l’avrebbe fatto sembrare un alieno e un vistoso cappello con delle piume di pavone. Gord Downie è stato per 33 anni l’istrionico leader dei Tragically Hip, una delle rock band più popolari nella storia del Canada. Con il suo gruppo ha pubblicato 16 album, scritto centinaia di canzoni e riempito gli stadi, consolidando un successo che difficilmente si è esteso all’estero, ma che l’ha reso una figura culturale di riferimento in patria. Lo scorso 20 agosto è salito sul palco per l’ultima volta in un concerto celebrativo. Nel dicembre del 2015 Downie, 52 anni, dopo un semplice svenimento ha scoperto di avere un glioblastoma, un tumore al cervello molto aggressivo. Si è sottoposto a un complesso intervento e a un ciclo di chemioterapia, ma il suo oncologo, un fan di lunga data dei Tragically Hip, ha dovuto spiegare al suo idolo come la prognosi fosse comunque molto negativa. Il tumore era nella forma più aggressiva e lasciava poche speranze di recupero. Secondo i medici il cancro avrebbe inciso rapidamente sulla sua capacità di parlare e sulla sua memoria a breve termine. Una sentenza senza appello per un performer con una carriera pluridecennale. Gord ha deciso di affrontare la sua lotta in pubblico e di fare, per l’ultima volta quello che ha sempre amato: suonare dal vivo. Nel corso dell’estate i Tragically Hip si sono messi in viaggio per un tour di 15 date nelle principali città del Canada. Victoria, Edmonton, Ottawa, Toronto, è stato un susseguirsi di sold-out, la data conclusiva si è svolta il 20 agosto a Kingston, la città natale del gruppo. Un concerto di addio e un evento nazionale. L’esibizione è stata trasmessa in diretta televisiva alla presenza del primo ministro Justin Trudeau e di diverse personalità del paese degli aceri. I canadesi si sono stretti intorno a uno dei loro eroi che, seppur segnato dalla sofferenza e dalla fatica, ha tenuto il palco per quasi tre ore. Fragile, ma non debole. Non è stata una commemorazione, ma una festa, dedicata a un artista che a differenza di tanti altri musicisti canadesi non ha tentato di sfondare negli Stati Uniti, ma ha scelto di rimanere ancorato al proprio paese, diventando così il più autentico tra le star locali. «I Tragically Hip – ha detto la cantautrice canadese Sara Harmer – hanno sostenuto le persone di questo paese. Ci hanno dato nuove idee su noi stessi, su chi siamo, sulla nostra storia. È stata una festa per celebrare la forza della vita. Festeggiare è un dovere». L’ultimo tour di Gord è un atto di coraggio, ma anche una dimostrazione di come gli artisti rock abbiano quello che potrebbe essere visto come un privilegio, quello di non andarsene in silenzio, ma di decidere come raccontare la propria fine e quale ricordo lasciare. Cantare un’ultima volta la vita in faccia alla morte non regala tempo, ma aiuta a strappare l’ultimo raggio di luce al momento più buio. Downie continuerà finché avrà le forze la sua lotta contro la malattia nonostante l’opinione dei medici. Ma il suo gesto di sfida alla sofferenza è già di per sé una vittoria e non è isolato nella storia del rock.

Quando Freddie Mercury scoprì di essere sieropositivo la diagnosi di HIV era una sentenza senza appello. Sia dal punto di vista medico che sociale. Il leader dei Queen, che non aveva mai nascosto ma neppure pubblicamente comunicato la sua omosessualità, preferì non rivelare ai fan la sua malattia anche se il tabloid The Sun aveva speculato già nel 1986 sulla presunta sieropositività della rockstar. Per qualche tempo il cantante nascose persino ai compagni della band i suoi problemi, ma che non stesse bene divenne chiaro. «Non ne parlavamo – ha raccontato Brian May – era una legge non scritta tra di noi perché sapevamo che Freddie non voleva. Ci disse che non voleva andare in tour. E alla fine capimmo». I Queen non si esibirono più dal vivo. L’ultima loro apparizione fu nel febbraio del ‘90 quando vennero invitati ai Brit Awards per ritirare un premio alla carriera. Mercury era pallido e sofferente e insolitamente taciturno. Il cantante si ritirò dagli occhi del pubblico e gli ultimi mesi li dedicò alla musica. Nel febbraio del 1991 la band britannica pubblicò Innuendo, album che si conclude con “The show must go on”, uno dei testamenti musicali di Mercury scritto con Brian May. È un’amara riflessione sulla vita di un artista che deve nascondere la sua natura e la sua sofferenza. Lo spettacolo doveva andare avanti, anche perché per lui lo spettacolo era vita. Nonostante le condizioni di salute peggiorassero sempre di più, Freddie passò la primavera del ’91 a registrare nuova musica. Nel maggio girò il video per la canzone “These are the days of our life” sottoponendosi a un pesante trucco per nascondere i segni della malattia, alcune settimane dopo cantò per l’ultima volta nella sala di registrazione dei Mountain Studios di Montreaux. Ha ricordato May: «Voleva che la sua vita fosse più normale possibile. Si vedeva che stava soffrendo. Ma lo studio era per lui un’oasi, il posto dove la vita era quella di sempre. Amava creare musica. Viveva per quello». Nelle ultime session Mercury incise parti di due canzoni “Mother Love” e “Made in Heaven”, altri due brani che raccontano l’angoscia della fine e suggellano il suo addio. Freddie cantò alcuni versi e poi affaticato decise di interrompere promettendo di continuare un altro giorno. Ma non riuscì più a tornare. «Sono un uomo di mondo e dicono che sono forte. – recita il testo di “Mother Love” – Ma il mio cuore è pesante. E le mie speranze se ne sono andate. Fuori in città, nel freddo mondo esterno. Non voglio fortuna. Solo un posto sicuro per nascondermi. Mamma per favore, fammi tornare dentro». Il 22 novembre venne diffusa la notizia ufficiale che Mercury era malato di Aids. Il giorno dopo morì. Aveva 45 anni. Le sue ultime registrazioni uscirono postume nell’album Made in heaven.

Il cantautore californiano Warren Zevon decise di raccontare il suo dramma nell’ottobre 2002 al David Letterman Show. Davanti al celebre comico e al pubblico televisivo americano rivelò di avere un tumore non operabile ai polmoni e che gli restavano solo pochi mesi di vita. «Forse è stato un errore tattico non andare dal medico per vent’anni» scherzò e annunciò che stava lavorando a un ultimo suo disco perché, disse: «Alla fine la gente ti ricorda per qualcosa che hai fatto molto giovane o che hai fatto appena prima di morire». Letterman gli chiese: «Dalla tua prospettiva hai imparato qualcosa dalla vita che noi non sappiamo?» «Ho capito – rispose – come devi imparare a goderti ogni sandwich». I suoi ultimi mesi lavorò a The Wind un album-testamento. «Nel tempo che ho a disposizione –disse – voglio incidere più canzoni che posso. E’ l’unico modo che conosco per dire addio ai miei amici e ai miei figli». Per il disco invitò colleghi quali Bruce Springsteen, Ry Cooder, Tom Petty, Billy Bob Thorton, Don Henley e Jackson Browne e registrò una decina di pezzi sotto l’incalzare della malattia. Nel suo ultimo lavoro non manca la paura e la tristezza. «Sarai con me fino alla fine ? Quando saremo rimasti solo io, te e il vento», recita la canzone “”Please stay”. Ma c’è anche quel sarcasmo di cui Zevon era maestro e soprattutto la storia di uomo che affronta il momento più duro e più inevitabile dell’esistenza riflettendo su quello che è stato, sugli errori fatti, pensando a quello che sarà, a cosa lascerà a quelli che rimangono. «In fondo ho sempre scritto canzoni che parlano di morte. Come diceva Hemingway: tutte le belle storie finiscono con la morte» disse. Zevon morì a 56 anni il 9 settembre 2003 sopravvivendo di diversi mesi alle previsioni dei suoi medici. La sua ultima vittoria sul destino fu quella di vedere ai vertici delle classifiche il suo disco “postumo”.

Non abbandonò la chitarra nemmeno nei suoi ultimi giorni il mito del country rock Johnny Cash. Negli anni ’90, dopo un periodo di oblio, la sua carriera fu rilanciata dalla collaborazione con il produttore Rick Rubin che diede origine a una serie di album fortunatissimi oggi noti come American Recordings. Nel 1997 la sua salute degenerò tanto che i medici gli dissero che gli rimanevano pochi mesi da vivere. Cash, classe 1932 e reduce da una vita di eccessi, in realtà aveva ancora energia da bruciare e continuò a registrare musica con Rubin ottenendo un ritrovato successo di critica e di pubblico. Il suo impegno nei confronti della musica era assoluto. Ha ricordato Rubin: «Voleva lavorare più di quanto il suo fisco gli permettesse di fare». Il vero colpo per lui fu la scomparsa dell’amatissima moglie June Carter, sua compagna di vita da quarant’anni, avvenuta nel maggio del 2003. La sua salute già precaria continuò a peggiorare, ma l’”Uomo in nero” della musica americana non si chiuse nel silenzio. Sul letto di morte June gli aveva chiesto di continuare a suonare e lui onorò l’impegno. «In ospedale mi disse “continua a lavorare” – ha detto Cash nella sua ultima intervista -. Tre giorni dopo il suo funerale ero già in studio. È stata una grande terapia». Nei mesi successivi lottò contro la sofferenza emotiva e fisica. Costretto all’immobilità e reso quasi cieco dal diabete, Cash registrò più di 60 canzoni in uno studio allestito in una camera da letto della sua casa in Tennessee, trovando anche le forze per tenere due esibizioni a sorpresa in Virginia. «Lo spirito di mia moglie mi dà coraggio e ispirazione» disse durante una di queste performance. «Dopo la morte di June era preparato a morire – ha rievocato Rubin -. Non voleva, ma era preparato. Quando il momento sarebbe arrivato, sarebbe stato in pace». Il giorno arrivò il 12 settembre 2003. Il suo primo album postumo contiene “Like the 309”, l’ultima canzone scritta di suo pugno. Fu pubblicato nel 2006 e arrivò al primo posto delle classifica di vendita americane. Il suo primo numero uno dal 1969.

Un grande amico e collega di Cash, Glen Campbell scoprì nel 2010 di avere i primi sintomi del morbo di Alzheimer. Aveva iniziato a suonare negli anni ‘60, aveva inciso con Elvis ed era diventato uno delle figure più note della scena country anche grazie a uno show televisivo che condusse nei primi anni ‘70. Proprio come The Man in Black era stato oggetto di una riscoperta da parte di un pubblico più giovane, una fase di ritrovato successo brutalmente sconvolta da una diagnosi senza speranza. Glen reagì alla sentenza dei medici da artista, incidendo due album Ghost on the Canvas (che vede collaborazioni con Paul Westerberg, Jakob Dylan, Chris Isaak, e Billy Corgan) e See You There, imbarcandosi in un lungo tour da 150 date e diventando un testimonial vivente contro lo stigma della malattia di Alzheimer. La sua battaglia personale è raccontata nel documentario “I’ll be me” (“Sarò io”) in cui viene rievocata la sua avventura musicale da 50 milioni di dischi venduti, ma soprattutto la sua volontà di dire addio al pubblico sul palco, con la sua chitarra in mano. «E’ una malattia spietata, essere in scena a tirare i dadi contro il destino è un gesto di enorme coraggio» ha commentato Bruce Springsteen. Sceso per l’ultima volta dal palcoscenico, Campbell nel momento in cui ha capito che la memoria e la lucidità lo stavano abbandonando ha voluto scrivere e cantare un’ultima canzone per dedicarla alla moglie. «Sei l’ultima persona che amerò – recita il testo -. L’ultimo volto che io ricorderò. La cosa migliore è che non sentirò la tua mancanza». Non può esserci dolore per la perdita di qualcosa che non si riesce a ricordare. Campbell oggi ha 80 anni e vive in una struttura protetta, inconsapevole di aver lasciato un segno indelebile nella musica popolare americana.

Ha nascosto a tutti i suoi problemi di salute, ma non ha affrontato la fine in silenzio neppure David Bowie. La sua vita cambiò drasticamente nel 2004 quando nel corso del tour a supporto dell’album Reality dovette subire un’angioplastica per un attacco cardiaco durante un concerto. Da allora la sua vita divenne molto riservata. Scomparve dalle scene, apparendo solo sporadicamente come ospite in qualche concerto, come comparsa in alcuni film e frequentando rari eventi mondani della città che era diventata casa sua, New York. Alla soglia dei 60anni, quaranta dei quali vissuti nell’inesorabile circo del rock, sembrava ormai persuaso a vivere una vita più tranquilla. Ma, man mano che la sua salute si faceva più fragile, Bowie visse una straordinaria rinascita creativa. Nel 2013 pubblicò, quasi a sorpresa, l’album The Next Days. Pochi mesi dopo iniziò a lavorare a un nuovo disco, Blackstar e a un musical off-Broadway Lazarus, tessuto intorno al suo vecchio repertorio e alle nuove composizioni. I suoi ultimi mesi sono stati vissuti accanto al suo collaboratore più fedele, Tony Visconti con cui lavorava dai tempi di The Spiders from Mars. Le registrazioni di Blackstar e la preparazione di Lazarus furono scandite da cicli di chemioterapia che lo lasciavano stremato. Solo i musicisti di studio e Visconti erano al corrente dei suoi problemi. Il regista del musical Lazarus, Ivo van Hove, era all’oscuro di tutto e ha ricordato come il cantante gli avesse imposto tempi strettissimi di lavoro, cosa che lo lasciò perplesso. Intanto nello studio di registrazione Visconti lesse i testi delle nuove canzoni e disse all’amico: «Bastardo, stai scrivendo un album di addio», Bowie rispose ridendo. «Non ha mai perso il suo sense of humor – ha ricordato il produttore –. Alle volte mi chiamava dopo i trattamenti, aveva la voce debole e io gli dicevo. “Non preoccuparti, ce la farai”. Lui rispondeva “Si spera. Ma non esaltarti troppo all’idea”». Le cure sembrarono andare nel modo migliore, ci fu la concreta speranza di una remissione ma nell’autunno 2014 ci fu una ricaduta. Nuove analisi tolsero al Duca Bianco ogni speranza. Nel musical Lazarus Bowie riprende l’alieno del film di fantascienza che aveva interpretato ne L’uomo che cadde sulla Terra del 1976 e lo mette in scena relegato a vivere sulla terra senza più sogni, descrivendolo come “un moribondo che non riesce a morire”. Sarà una bambina di 13 anni a riportarlo alla vita a resuscitarlo come Lazzaro. I parallelismi con la realtà erano fin troppo ovvi, visto anche che la bambina della pièce condivideva la stessa età della figlia di Bowie, Alexandria. Quando Lazarus andò in scena il suo autore era sofferente, ma affrontò per un ultima volta pubblico e giornalisti. Andò tra le quinte a salutare il cast, ma ebbe un collasso. La sofferenza non fece che infiammare l’ispirazione di quello che era stato Ziggy Stardust. Nelle ultime settimane la sua creatività fu come un fiume in piena, progettava nuova musica, abbozzò cinque nuovi brani e pensava a un nuovo spettacolo teatrale. «Non posso fermarla – scrisse in una mail indirizzata alla regista Floria Sigismondi – continuo a creare, creare, creare». Chiamò ancora Tony Visconti per discutere del loro futuro lavoro in studio. «Ero entusiasta – ha ricordato il produttore – ero al corrente che stava molto male, ma pensammo entrambi che si sarebbero stati alcuni mesi». In realtà per David era troppo tardi. Blackstar uscì l’8 gennaio 2016, il giorno del suo 69esimo compleanno, il 10 gennaio morì. Il suo addio è messo in scena nel video del brano Lazarus, Bowie appare come prigioniero su un letto di morte per poi scomparire sulle note finali in un armadio che ricorda una bara. Il regista Johan Renck sapeva che il cantante era malato, ma ignorava la gravità delle condizioni. Quando sul set si discusse dell’idea di un’uscita di scena così drammatica, il protagonista fu subito d’accordo. «Così lasciamo il pubblico ad immaginare» disse. Invocare Lazzaro, mettere in scena la propria morte, creare fino all’ultimo respiro, David Bowie stava affrontando la fine così come aveva vissuto la vita. Nell’ostinata sfida che accomuna tutti questi artisti c’è la volontà di dimostrare che la creazione e l’arte sono una delle grandi sfide dell’uomo contro la mortalità e c’è anche, parafrasando un poeta caro ai musicisti rock come Dylan Thomas, l’orgoglio e la caparbietà di non andarsene docili in quella buona notte.