Nel dicembre del 1981 usciva nelle sale giapponesi Sailor Suit and Machine Gun, uno dei film che più si sarebbero impressi nell’immaginario giapponese del decennio, un periodo che a posteriori sarebbe troppo spesso stato ricordato come il decennio perduto dell’edonismo sfrenato, la grande bolla che avrebbe investito l’arcipelago nipponico nella seconda metà degli anni ottanta. Anche dal punto di vista cinematografico gli ottanta in Giappone sono spesso liquidati come il periodo buio, quello della vacuità totale, ma come sempre accade con le semplificazioni, sebbene contengano tratti di verità, sono spesso frasi di comodo che generalizzano.

Nel 1988 usciva infatti Tetsuo di Tsukamoto e l’anno dopo vedeva il debutto dietro la macchina da presa di Kitano con Violent Cop, per non parlare poi della prima metà del decennio con Thunder City Road e Burst City di Ishii Sogo (ora Gakuryu) che avrebbe inaugurato quasi una nuova estetica cinematografica.

Sailor Suit and Machine Gun è un film importante per molte ragioni, intanto perché fonde e sottilmente prende in giro tante tematiche care al cinema giapponese come il mondo della malavita e quello adolescenziale, ma soprattutto perché anche quando (ri)visto oggi, a distanza di 35 anni, ha un fascino ed una forza nel mescolare generi e stilemi estetici che ancora riesce a colpire.

Il film fu un vero e proprio successo di pubblico e di critica, parte racconto di formazione, parte satira del genere yakuza, la protagonista è la giovane studentessa Izumi che da un giorno all’altro, dopo la morte di suo padre, viene improvvisamente catapultata nella posizione di boss del gruppo yakuza del genitore. La protagonista è interpretata dalla diciassettenne Hiroko Yakushimaru e la pellicola è davvero qualcosa di unico, riesce a far collidere e fondere cioè la presa in giro del mondo malavitoso, con scene di violenza, tocchi ed improvvisi momenti poetici ed una trama che continua a sorprendere fino alla fine dei suoi 112 minuti di durata. Sta tutto insieme alla perfezione grazie alla regia di Shinji Somai, probabilmente uno degli autori giapponesi più disconosciuti, meno visti e considerati a livello internazionale.

Ci si potrebbe spingere a dire che senza Somai e Sailor Suit and Machine Gun probabilmente non avremmo mai visto il tocco unico di Takeshi Kitano. Ciò che più colpisce però di questo lavoro è lo stile, chi si aspettasse ritmo e violenza, del resto il titolo e la locandina sembrano indirizzare su questo, come in un noir giapponese o in tanto film di genere degli anni settanta, resterebbe forse deluso. Dal punto di vista estetico si tratta infatti del trionfo del piano sequenza, che abbondano durante tutto il corso del film, e di una fotografia cristallina in cui la composizione di ogni singola inquadratura è puro piacere visivo. Perché allora il film non è riuscito più di tanto a varcare i confini ed essere accettato nel canone del cinema giapponese contemporaneo?

A mio modo di vedere i motivi sono quelli già accennati sopra, si tratta cioè di un lavoro uscito in un periodo che viene poco considerato dagli studiosi di cinema nipponico, un film di genere con per di più una ragazzina di 17 anni come protagonista, e su questo discrimine attrattivo e di sessualità si gioca molto della riuscita della pellicola.

Per celebrare i 35 anni dell’uscita del film, le scorse settimane è arrivato nelle sale giapponesi un suo ideale seguito, Sailor Suit and Machine Gun: Graduation, un lavoro che non sembra per niente ispirato ma che speriamo invogli lo spettatore, anche non giapponese, a riscoprire questa piccola gemma.

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