A dispetto del titolo tristemente sarcastico, il nuovo lavoro di Antonio Tricomi, Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta (Galaad, pp. 424, euro 16) si impone come uno dei sempre più rari esempi italiani di saggistica militante. Chi conosce l’ampia produzione di Tricomi non ne sarà certo stupito: da almeno una decina d’anni, il critico siciliano di nascita e marchigiano d’adozione si produce in un’inesausta investigazione della modernità letteraria e culturale, soffermandosi in prima battuta su una delle sue ossessioni critiche – Pasolini, a cui Tricomi ha dedicato tre volumi, fra i quali si può ricordare Sull’opera mancata di Pasolini (2005) –, poi interrogandosi sui caratteri e sull’eredità del Novecento italiano (letterario e non solo), con La Repubblica delle Lettere (2010), non senza trascurare il cinema, l’inchiesta, la polemica politica (si vedano i contributi raccolti ne Il brogliaccio lasco dell’umanista).

Fedele a un’idea di critica che sia anzitutto discorso sul presente e che mai si appaghi d’essere mero esercizio ermeneutico autoreferenziale, e conscio di rifarsi a modelli oggi scarsamente frequentati o ritenuti fuori tempo massimo persino dagli addetti ai lavori del campo umanistico (Fortini, prima di tutto; ma anche Barthes, Anders, Kracauer e tanti altri critici della modernità), Tricomi potrebbe sembrare, nel panorama attuale, una sorta di critico senza casa: incapace di addomesticarsi politicamente e di limitarsi al linguaggio specialistico dell’accademia; parimenti ostile alle banalizzazioni della pubblicistica di regime: perché, in fondo, fin troppo consapevole della reciprocità di ambedue le pose.

Una condizione invidiabile, quella dell’intellettuale periferico e marginale, potrebbe dire qualcuno. In realtà, questa nuova raccolta di saggi – nella quale il lettore potrà incontrare il cinema di Sokurov, i romanzi di Bellow, una riflessione sulle idee artistiche di Tolstoj, analisi politiche della condizione italiana, un mirabile intervento su Nicola Chiaromonte, una mappatura ragionata dell’ultima produzione letteraria italiana, e molto altro – sembra voler mettere in evidenza, e dunque combattere, l’implicita caratura paternalistica e nichilistica di tanta retorica dell’impegno, riconsegnando un ritratto civicamente più attento e realistico dell’attuale condizione intellettuale italiana.

Un paese, l’Italia, che nei saggi di Tricomi assume le sembianze di una piccola Weimar, un laboratorio politico in cui scorgere le conseguenze, queste sì nichilistiche e persino apocalittiche, del tracollo della modernità, dello sfascio del sapere umanistico e della distruzione pressoché totale della collettività, a beneficio di un mondo che, dietro l’apparente democratizzazione dei consumi culturali e della vita tutta, rivela il volto tetro delle contraddizioni sociali più efferate. Un paese, l’Italia, che si pone, pertanto, come avanguardia di quella «ferocia» che, da condizione di classe, sembra imporsi come universale carattere nazionale – per evocare lo straordinario romanzo omonimo dato da poco alle stampe da Nicola Lagioia, non a caso firmatario della prefazione al libro di Tricomi (la postfazione è firmata da Goffredo Fofi). Una violenza simbolica cui il mondo della cultura sembra oggi obbedire, piegandosi a quelle logiche di profitto e conservazione che infestano, a parere dell’autore, ogni ambito di realtà, per dar così vita a un’antropologia del tutto nuova e degenerata, fondata sul servaggio o sull’accettazione passiva.

Di fronte all’esplosione della modernità, che il critico rileva anzitutto nella distruzione del suo stesso campo d’azione (l’umanesimo), l’unica possibile forma di resistenza non coincide con l’accettazione eroica di una marginalità – sia essa esperibile nelle forme del precariato intellettuale o in quelle dell’effettiva lontananza dai centri del potere culturale o politico: a Tricomi è estranea la rivendicazione di una soggettività diversa, eletta, antagonistica, trattando il capitalismo dei nostri tempi come una totalità che tutto ingloba –, quanto con l’esercizio di una lucidità analitica che sia capace di orientare gli individui, li renda consapevoli della loro posizione nel mondo, attraverso un dialogo serrato con quel sapere offeso che è oggi la tradizione della modernità. «Se l’umiliata generazione alla quale appartengo infine si convincerà di essere anzitutto chiamata a far da ponte tra un passato di cui si è persa la memoria e un futuro che neppure si riesce a immaginare, e se essa accetterà il rischio dell’anonimato pur di svolgere al meglio tale compito, potrà magari verificarsi uno di quei paradossi, talvolta benefici, con i quali la storia è solita spiazzare chi periodicamente ritiene di averne indovinato il corso».
Inversione di rotta, sembrano suggerire gli «esercizi» di Tricomi, che si ritiene possibile a patto di concepire il sapere come interrogazione critica dell’esistente e non come ornamento di massa.