La prima traduzione, nel 1976, di Of Grammatology, a opera della femminista indiana Gayatri Chakravorty Spivak, diede nuova vita a De la grammatologie, di Jacques Derrida, uscito invece in Francia nel 1967: di fatto, aprì all’internazionalizzazione del pensiero del filosofo francese. Proprio per la natura dell’opera, tuttavia, il gesto di Spivak – questa sua impresa monumentale – sollevò non pochi interrogativi critici. Due, i più pressanti. Come sarebbe stato possibile tradurre, e poi leggere, Derrida in un’altra lingua, alla luce del guanto di sfida gettato dal filosofo ai canoni della leggibilità? E come sarebbe stato possibile, in secondo luogo, che la traduzione inglese non fallisse miseramente nel catturare la «pienezza» dei «termini» attraverso i quali l’«originale» sottoponeva a decostruzione ogni termine?

A quarant’anni dalla prima traduzione in inglese, Spivak ritraduce oggi, e forse riscrive, Of Grammatology di Derrida (Johns Hopkins University Press, pp. 560, introduzione di Judith Butler). «Riscrivere» non va inteso come se Spivak ne divenga l’autrice o che rimpiazzi l’originale; piuttosto, significa che il concetto di autorialità, nonché quello di originalità, subiscono un disfacimento.
A ben vedere, la prima domanda ineriva alla capacità, da parte di Spivak, di farsi rappresentante dell’opera di Derrida, ossia di preservarne, o di istituirne, una qualche leggibilità. La seconda, invece, ineriva alla sua capacità di riconoscerla, ossia di tradirla ma ai fini della traduzione – e non il contrario. L’introduzione, potente, di Judith Butler, scritta per l’occasione di questa riscrittura,si esercita, in questo senso, in un tentativo di risposta: restituisce la storia di Spivak che traduce Derrida e la sua ricezione negli USA – una restituzione che è a un tempo una rappresentazione, e un gesto di riconoscimento. Ci sono due soggetti – ciascuno dei quali ha una propria consistenza– che si rincontrano, dopo quarant’anni.

E proprio perché si stanno rincontrando, proprio perché stanno ritraducendo l’occasione del primo incontro, o forse è la forza di quell’incontro a invocarne la ritraduzione, deve esserci qualcuno a riconoscere quel gesto, e a rappresentarlo. Né Spivak né Derrida hanno perso la voce. Non è detto, però, che essa riesca a essere immediatamente decifrabile. A volte non si riesce a parlare proprio perché si sta agendo. E la traduzione è un’azione stancante. La traduzione, infatti, altera retroattivamente il linguaggio di partenza con lo stesso gesto attraverso il quale torce, e potenzia, il linguaggio di arrivo. Nessuno dei due codici, in altri termini, rimane identico a se stesso, dopo la traduzione. Il loro disfacimento è precondizione per la creazione di un linguaggio che è dell’ordine del molteplice. E la traduzione, nel suo senso più politico, svela l’illusione di ogni fantasia di sovranità.

Quest’occasione lo riconferma. Ci sono dei soggetti, da una parte, e c’è una presentazione, dall’altra. E quei soggetti pervengono a intelligibilità solo grazie a questa nuova presentazione. Con questo non significa che quei soggetti, e loro relazione, possano essere ridotti alla presentazione, ma significa senz’altro che questo loro nuovo incontro divenga intelligibile, nuovamente, solo attraverso una presentazione. La composizione di questo assembramento, d’altronde, lo consente. Né Derrida, né Spivak, né Butler hanno mai avuto nostalgia di un soggetto autofondato, di un soggetto, cioè, che entra nel discorso così come ne esce – un soggetto che non necessita di alcuna presentazione, e di alcuna traduzione. D’altro canto, non sempre le presentazioni che fanno gli altri di noi, sono in grado di rappresentarci e di riconoscerci. In altre parole, si tratta di cattive traduzioni. Ma anche se la presentazione può essere una cattiva traduzione, in nessun modo tale eventualità ne intacca il suo carattere necessario – nessuno di noi potrebbe pervenire a esistenza, in assenza di una presentazione. Se ciò accadesse, infatti, sarebbe la vita stessa a essere forclusa dalla presentazione che il soggetto fa di sé: un soggetto che pur di restare aggrappato alla propria autodefinizione, esclude la possibilità della vita. Of Grammatology non può certo essere questo tipo di soggetto. Forse perché Of Grammatology non è propriamente un soggetto – ne è la crisi.

Più che un libro, Of Grammatology è la sua tomba. Cosa significa, oggi che Derrida non c’è più, rappresentare e riconoscere questo monumentale tentativo di mantenere aperta la traduzione, di porla in prima linea per affermare la deiescenza delle nostre categorie di pensiero più importanti, e per fare di questa deiescenza una necessità? Significa costringere il linguaggio a una trasformazione, che lo induce a uno spaesamento, che lo induce a un disfacimento. Ancora una volta, come quarant’anni fa. Che lo espone a un lutto. A un certo tipo di lutto necessario, ancora una volta, l’unico dal quale emerge, come ogni volta, la vita.