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All’inizio, può sembrare che qualcuno abbia semplicemente steso i panni. Vestiti per bambini, calzini, bavaglini sono tutti in fila, colorati allegramente, pronti per asciugarsi al sole, essere ritirati e riposti nei cassetti, piegati con gesti amorevoli. Ma una sensazione inquietante intrappola quel primo pensiero ingenuo: in fondo, non ci si trova su una terrazza, ma al chiuso, in una sala di museo. E quegli abiti senza padroni finiscono per agitare fantasmi e presenze perdute.

Poi se si volge lo sguardo a terra si vedono sedie vuote, altalene ferme da troppo tempo, scarpe dai piccoli numeri abbandonate. L’impressione minacciosa trova la sua conferma. Non si tratta di un’azione ordinaria che puntella il quotidiano domestico di una qualsiasi famiglia, ma sono tracce di una dolorosa sparizione. E a metterla in scena è l’artista di Buenos Aires Silvia Levenson con la mostra Identidad Desaparecida (nel museo del Vetro di Murano, dentro gli spazi delle Conterie, fino all’11 settembre), a cura di Elena Povellato, testi in catalogo di Manuela De Leonardis e dell’artista. Quegli oggetti seminati sulle pareti sono indizi, residui di infanzie strappate via negli anni in cui una feroce dittatura militare cambiò la storia dell’Argentina. Con il vetro, Levenson «tesse» corredini per bambini: un materiale trasparente, ma anche qualcosa di immaginifico, che per l’artista incarna l’idea di «resilienza». L’intento è restituire memoria ai figli dei desaparecidos: non a caso la dedica di questa rassegna itinerante va alle Nonne di Plaza de Mayo, le stesse che hanno identificato i casi di cinquecento bambini rapiti ai genitori e che continuano la campagna invitando i ragazzi e le ragazze a fare test del dna per ritrovare la loro vera origine.

è volata via. vetro,cavo di acciaio. 2014 foto marco del comune courtesy galleria traghetto

Così, quegli abiti intimi – dalle culotte ai pigiamini – vengono esposti senza corpi, a rimarcare un vuoto tragico, una frattura sociale che ha intrappolato intere generazioni. La matrice «vetro» è insidiosa: mostra la sua fragilità nelle venature e può incrinarsi facilmente. Nella narrazione di Silvia Levenson mancano i protagonisti. Ci sono solo le loro cose, preservate all’usura del tempo dal momento che nessuno le ha più indossate. E qualche immagine, pescata fra le pagine di album autobiografici, per ricordare un «come eravamo», diventato impossibile nell’Argentina buia tra il 1976 e il 1983.