Da anni, il lavoro di Marco Aime si concentra su alcuni nodi politico-sociali riletti e risignificati attraverso la lente dell’antropologia culturale e della sua grande esperienza che gli proviene dai molti viaggi e incontri in Asia, America Latina e Africa. Anche in questo suo ultimo libro, Etnografia del quotidiano. Uno sguardo antropologico sull’Italia che cambia (elèuthera, pp. 192, euro 15) l’idea è quella di offrire una bussola per orientarsi intorno ad alcune istantanee del presente e farne punto di estesa discussione. Come nota infatti Jean-Loup Amselle nella prefazione al volume, la proposta di Aime che risente sempre dell’osservazione partecipante conferma come politica e antropologia siano in stretto e inscindibile contatto.

I temi che Marco Aime ha seguito con maggiore frequenza gli hanno permesso di smascherare la cosmesi politico-lessicale entro cui sono stati spesso spacciati, quindi principalmente le retoriche attorno alla cultura, all’identità, alla razza e ai meccanismi coercitivi di potere e profitto corrispondenti, ritornano anche in Etnografia del quotidiano mostrando la lettura di un sistema sociale in bilico fra la difficoltà della «creazione di una coscienza collettiva» e la risorsa – tenace e radicale – di pratiche politiche e di resistenza. Lo abbiamo incontrato per porgergli qualche domanda.

I rituali di rappresentazione, come lei stesso spiega, «mettono in scena» la struttura ufficiale di una società e, in questo senso, sono illusioni di cui non si può fare a meno perché tra gli elementi fondanti di quella stessa società, piccola o grande che sia. A tal proposito, si sofferma sulla parata del 2 giugno notando come, nella sua stessa prossemica, risieda una perfetta rappresentazione della gerarchia politico-militare che governa il paese che spende le proprie risorse per ribadire un posizionamento militaristico, poliziesco e guerrafondaio a detrimento di altre scelte e altri soggetti…
Quella parata è un rituale che ostenta e conferma il predominio che tutto ciò che concerne l’apparato bellico è superiore alla società civile e che il potere politico sostiene questa gerarchia. Lo si comprende non solo dal fatto che a sfilare, ad apparire nel giorno della Festa della Repubblica, quella «fondata sul lavoro», siano solo i militari.
Come a dire che quello delle armi è l’unico mestiere degno di essere mostrato, ma lo si evince anche da altri eventi: ai militari morti in quelle forme camuffate di guerra che chiamiamo «missioni umanitarie» vengono riservati funerali di Stato con tanto di bandiera e Presidente; ai caduti sul lavoro che ogni giorno riempiono le nostre cronache no. E nel caso dell’aereo che si abbatté sulla scuola di Casalecchio di Reno nel 1990, l’Avvocatura di Stato, essendo le due parti contendenti entrambe istituzioni statali (Ministero della difesa e quello dell’istruzione), scelse di difendere il primo. Ancora una volta l’esercito viene prima dei cittadini.

Altro elemento su cui si concentra riguarda la Val di Susa e il movimento No Tav che lei conosce e ha frequentato in alcune occasioni. Sottolinea la costruzione del «noi» – in generale concetto scivoloso che rischia di neutralizzare le differenze – che lei qui sottolinea plurale e condiviso perché non è fondato sull’autoctonia bensì risulta frutto dell’adesione alla lotta politica che si sostanzia nelle pratiche dal basso e in ciò che è «l’assumersi le responsabilità che legano gli uni agli altri»…
Il movimento No Tav si differenzia rispetto ad altri movimenti di opposizione perché ha saputo da un lato gestire la diversità al proprio interno e dall’altro a non chiudersi in una identità locale, escludendo gli altri. Nel primo caso, la specificità di questo movimento è di tenere insieme persone di idee politiche diversissime, comunisti e cattolici, anarchici e leghisti, così come individui di età diversa: alle manifestazioni si vedono studenti del liceo, anziani partigiani, almeno tre generazioni partecipano attivamente alla lotta.
Sull’altro versante, uno dei punti di forza si può riassumere nello slogan «valsusini si diventa», che trasforma una prerogativa di appartenenza territoriale, che inevitabilmente escluderebbe chi non è del posto, in una scelta ideologica, quella di partecipare a una lotta in cui si crede. Al contrario di ciò che fa la Lega, il movimento ha puntato non sulla natura, ma sulla cultura.

Tra i temi che le stanno a cuore da anni c’è quello del tribalismo, uno spettro che in nuova forma secondo lei «si aggira per l’Europa e soprattutto per l’Italia». Rintraccia infatti una relazione con l’emergere di nuovi gruppi politici che si fondano sulle retoriche dell’autoctonia, dell’identità e delle radici e che hanno della cultura una concezione razziale come dato biologico…
Appunto, come dicevo prima, molti movimenti e partiti europei e in Italia la Lega, stanno proponendo una società etnica, identitaria ed escludente. Una società basata sul luogo di nascita e non sulle scelte culturali. Un fatto, questo, che richiama sinistramente quel Blut und Bloden, il «terra e sangue» tanto caro ai nazisti. Non a caso nelle loro retoriche spadroneggia la metafora delle «radici», come se gli umani fossero piante che crescono solo in un determinato posto. Gli uomini hanno però piedi e la storia dell’umanità è fatta di gente in cammino. Questi movimenti invece propongono una immagine statica della storia e per darsi una facciata più moderna, parlano di difesa della cultura, ma l’immagine di cultura che hanno in testa è simile a quella della razza: non fatta di scelte, ma determinata dalla nascita. Ecco dove si nascondono le nuove forme di tribalismo.

Ravvisa un legame tra il modo in cui si rappresenta il mercato finanziario e la stregoneria. L’incertezza, il rischio ma anche il linguaggio utilizzato divengono elementi che si scontrano con la comprensibilità consentita a tutte e tutti rispondendo piuttosto a un’esigenza che si muove tra azzardo e credenza. Cosa intende?

Mi sono un po’ divertito a giocare sulla incredibile somiglianza che intercorre tra la pratica della finanza e la stregoneria dei popoli che ho studiato. In entrambi i casi ci si affida a qualcuno che si suppone abbia più poteri di noi e che sia pertanto in grado di manipolare forze a noi sconosciute, al fine di ottenere un qualche risultato vantaggioso.
Il tutto senza alcuna certezza del risultato: non è un caso, infatti, che in italiano, in inglese, in francese il verbo usato per indicare l’attività in borsa sia «giocare», verbo legato all’azzardo. Non si dice «lavorare in borsa», perché quella è una pratica estranea al lavoro, quello vero. Anche il linguaggio criptico infarcito di termini misteriosi ai più come subprime, derivati, future, stock options sono il segno di un mondo a parte, che non vive nella realtà quotidiana.

Arriviamo al suo riconoscimento di un mercato provvisto di un chi – quindi incarnato da donne e uomini. A riprova del suo interesse ne ha scritto anche per la collettanea Davide e Golia. La primavera delle economie diverse (AA. VV., Jaka Book, 2013) e c’è da chiedersi se il riferimento sia alla possibilità di buone pratiche e quali…
Proprio dal continente della stregoneria per eccellenza ci arrivano pratiche che, al contrario della stregoneria, che agisce per dividere e spezzare legami, tentano di rafforzarli e di consolidarli. Per esempio, sono stati mutuati modelli di «resistenza» africani al mercato, adottati in metropoli europee come Parigi e Londra. Una sorta di nemesi storica, proprio nelle due principali capitali del colonialismo africano, si sono diffusi quei circuiti di scambio locale, chiamati Sel (Systèmes d’échanges locaux) o Lets (Local Exchange Trade Systems).
Con forme e organizzazioni diverse, questi sistemi locali tendono a spostare l’accento dallo scambio commerciale a uno scambio che prevede una forma di moralità. L’ispirazione per la realizzazione di questi sistemi è stata tratta da realtà simili operanti a Grand Yoff, un quartiere di Dakar. Cosa è accaduto in Senegal? Che per fare fronte a un sistema economico di marchio occidentale, amato dalle élite dei funzionari ma troppo lontano dalle esigenze della gente comune, si è tentato di riproporre in chiave moderna quella che gli antropologi definiscono «l’economia degli affetti».
Niente di più naturale che recuperare le tradizionali relazioni parentali, struttura fondante della società africana, e farle funzionare come rete di scambio.