Nel 1707 Georg Friedrich Händel, allora ventiduenne, arrivò nella Roma pontificia. Non ancora famoso, era già capace di gareggiare con compositori del calibro di Arcangelo Corelli e Alessandro Scarlatti. Bandita l’opera lirica dai teatri, gli venne commissionato un oratorio, il suo primo: una pièce a tutti gli effetti, di impianto moraleggiante, che non richiedeva messa in scena. Il libretto fu approntato dal cardinale Benedetto Pamphilj.

Nacque così Il trionfo del Tempo e del Disinganno, diviso in due sezioni, cui Händel continuò a lavorare fino agli ultimi anni della sua vita, riallestendolo nel 1737 (a Londra, con una terza sezione e un nuovo titolo: Il trionfo del Tempo e della Verità) e nel 1757 (ancora a Londra, ampliato e tradotto in inglese). Com’era in uso a quei tempi, Händel riutilizzò molte delle musiche dell’oratorio, in particolare nelle opere Agrippina (1710: l’aria «Come nube che fugge dal vento») e Rinaldo (1711: l’aria celeberrima tanto amata dai cineasti «Lascia ch’io pianga», riedizione della già preziosa «Lascia la spina»).

Dal 28 gennaio al 13 febbraio Alexander Pereira, sovrintendente e direttore artistico della Scala, ripropone l’allestimento scenico dell’oratorio presentato a Zurigo nel 2002, promuovendo al contempo la nascita di un complesso barocco specializzato, al quale hanno aderito orchestrali scaligeri sotto la guida dell’organista, studioso e direttore d’orchestra svizzero Diego Fasolis, uno dei più apprezzati esperti di questo repertorio a livello internazionale. Alla preparazione dello spettacolo händeliano ha collaborato anche la formazione orchestrale dei Barocchisti, fondata dallo stesso Fasolis con la moglie.

La chiave interpretativa usata dai registi Jürgen Flimm e Gudrun Hartmann, coadiuvati dallo scenografo Erich Wonder, dalla costumista Florence von Gerkan, dal light designer Martin Gebhardt e dalla coreografa Catharina Lühr, è quella dell’antifrasi superficiale, che, guardando più in profondità, si traduce in una esplicitazione di ciò che nel testo è adombrato, velato o rimosso.

I dialoghi fitti e fioriti delle prosopopee di Piacere, Bellezza, Tempo e Disinganno sono ambientati in una brasserie art déco che richiama il locale parigino La Coupole, inaugurato nel 1927, luogo d’incontro di personaggi leggendari come Man Ray, Louis Aragon, Pablo Picasso, George Simenon e Joséphine Baker. Il coté mondano, frivolo, sessuale, cinico criptato per ragioni politiche nella riflessione sulla caducità dell’uomo del cardinale Pamphilj viene qui esplicitato ed enfatizzato dalla ripetizione ciclica di gesti e coreografie, correlativo visivo della ripetizione dei motivi in partitura.

La Bellezza di Martina Janková, nel suo percorso da Marylin a suora attraverso svestizione mondana e vestizione religiosa, è credibile, intensa, vocalmente precisa, candida e ipnotica come una sirena (quello che la bellezza è sempre al suo livello più alto); il Piacere di Lucia Cirillo, al netto di alcune piccole incrinature o forzature della voce, è suadente con un filo di inerzia che si spezza solo quando inizia l’aria «Lascia la spina», in cui il soprano spicca il volo e si trasfigura, ammaliando il pubblico; il Disinganno di Sara Mingardo sfoggia una coloratura naturale che non lascia dubbi (è sua la voce più barocca dell’allestimento) e disegna un personaggio austero e allo stesso tempo gentile; il Tempo di Leonardo Cortellazzi è tanto generico vocalmente quanto sgradevole come personaggio (secondo il disegno dell’allestimento). Intensa e avvolgente la direzione di Fasolis.