L’operazione giornalistica comparsa sul domenicale del Sole 24 Ore del 2 ottobre (e uscita in contemporanea sul New York Review of Books, Frankfurter Allgemeine Zeitung e Mediapart) condotta da Claudio Gatti con un editoriale di Roberto Napoletano, ha suscitato un polverone che ancora non si è placato su social e ulteriori testate, sia nazionali che internazionali. Si tratta di un’indagine sulla «vera identità» di Elena Ferrante, che scrive da circa 24 anni e che è autrice, tra gli altri, del fortunato ciclo dell’Amica geniale (e/o). Poco incisivo sul piano della novità che si vorrebbe invece consegnare come uno scoop di rara imprevedibilità e piuttosto banale sul modo di procedere, uno degli inserti culturali che vorrebbero attestarsi fra i più autorevoli in Italia ha deciso di accantonare il senso critico per veleggiare verso rotte ben più prosaiche e succulente.

Che ad alcuni non interessi l’opera di Ferrante ma l’identità autoriale non è ugualmente una novità. Interessante, figurarsi, peccato però che interpellare Foucault e Barthes come struttura portante teorica all’interno dell’articolo non giustifichi il resto: le indagini reddituali, catastali e fiscali infarcite con alcuni dettagli di carattere personale.

Da circa tre secoli molte donne, per necessità o per scelta, hanno imboccato la strada dell’anonimato e della pseudonimia, una strada esperienziale che, a differenza dei pur edificanti dibattiti degli anni Settanta, si è misurata con la vivibilità del mondo e la libertà femminile. Perché dunque non preferire l’indagine sul ruolo dell’autore come corpo pubblico, raccontare della sua vampirizzazione, della moltiplicazione dei festival letterari e della mancata corrispondenza con le vendite dei libri anche in presenza dell’autore? Invece di fare una inchiesta seria insomma non su «chi» è Elena Ferrante ma su «cosa» Elena Ferrante ha introdotto nella discussione critica pubblica attraverso i suoi soli libri, si sceglie un’altra strada che vuole inchiodarla a un banchetto collettivo. E il banchetto di una società vorace come quella contemporanea non si nutre di libri – i dati dell’editoria purtroppo lo confermano – ma di corpi da scarnificare, che sono vivi fino a quando servono interi. Ovvio che si consumano meglio a pezzi.

Il tema è il grado di imperdonabilità che si attribuisce a Elena Ferrante. Non c’è proporzione, misura necessaria con l’oggetto indagato che in questo caso è letterario e che assume un’equivalenza con qualsiasi altro oggetto. Privo di contesto, assaltato dall’interno della propria vita e dei propri affetti.
Poco male, perché il punto è che di sapere chi sia Elena Ferrante in effetti non importa quasi a nessuno dei milioni di lettori e lettrici che ha in tutto il mondo. Sembrerà davvero strambo ma a loro interessano le sue storie, il modo in cui possono amare la grandezza letteraria di una scrittrice che ha saputo scandagliare l’animo umano e restituire mondi abitati da protagoniste imperfette e terrestri. Il banchetto è rimandato quindi a data da destinarsi.