Fra le città che più hanno contato nella storia del grande repertorio musicale barocco, Roma si ricorda di questa vocazione solo a sprazzi. Il fine settimana appena trascorso potrebbe invece offrire esempi e risposte anche a chi ripete l’incessante litania della distanza fra musica classica, opera e pubblico. Sabato, nell’aula magna della Sapienza, per l’Istituzione Universitaria dei Concerti, il Concerto Italiano guidato da Rinaldo Alessandrini ha festeggiato i suoi trent’anni di attività con un festeggiatissimo concerto monteverdiano.

Un percorso lungo e felice, quello di Alessandrini con Concerto Italiano, apporto davvero significativo per la cultura musicale del nostro paese, nato quando l’onda di rinascita delle tradizione musicali antiche era consolidata in Europa ma ancora fragile in Italia. Per questa festa Alessandrini ha creato un programma di preziosa raffinatezza, che si snodava come un corpo unico, senza intervalli, quasi il corrispettivo sonoro di un grandioso partito di decorazioni e affreschi in una reggia di fine Cinquecento: assai meglio della strombazzata realtà virtuale infatti, la musica di Monteverdi, se eseguita con la classe ma anche la ricchezza di implicazioni umane e «carnali» proprie delle interpretazioni del Concerto Italiano, è in grado di restituire atmosfere diversissime con esaltante ricchezza di tinte e sfumature.

E forse non tanto nei brani più celebri, come Il combattimento di Tancredi e Clorinda o il Lamento della ninfa, ma nella resa plastica della parola poetica degli altri madrigali risaltavano al meglio la florida varietà della scrittura monteverdiana e la classe interpretativa dell’affiatato gruppo di musicisti, come nell’umbratile lamento amoroso di Petrarca «Hor che ‘l ciel e la terra» o ancora nel sensuale «Chiome d’oro», su testo di Striggio.

Nelle stesse ore, ma con replica il giorno successivo, grazie al Festival Romaeuropa, sbarcava al Teatro Argentina lo spettacolo che il gruppo riminese dei Motus , insieme ai musicisti di Sezione Aurea ( e tre ottime voci che ‘riassumono’ i vari personaggi: Laura Catrani, Carlo Vistoli e Yuliya Poleshchuk) hanno tratto da King Artur di Purcell. Concepito per la Sagra Malatestiana di Rimini, lo spettacolo, che combina la drammaturgia di Luca Scarlini e l’elaborazione musicale del direttore Luca Giardini, innesta alcuni caratteri preminenti della creatività dei Motus, alla prima esperienza con la regia operistica, sull’articolata struttura della semi-opera di Purcell, nata a Londra nel 169. Il risultato, con i continui scarti fra parola, azione e canto – come prevede la partitura – e fra piani visivi, grazie all’uso preminente del video, mescolando frammenti registrati e immagini dal vivo, è una creazione di singolare forza drammatica, che riesce a trovare un punto di incontro e confronto assai fertile e efficace fra ragioni della musica e urgenze espressive della scena teatrale.

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Una scena che rivela un mondo dominato dal buio, dai fantasmi, dall’odio e dalla paura, da stanze gelide, foreste cupe e macerie post-industriali dove distinguere la realtà dal sortilegio è arduo e in cui pare impossibile possano germogliare quel fuoco d’amore ( e di musica) capace invece di sconfiggere ogni forza oscura, terrena o soprannaturale.

A poca distanza, al teatro Eliseo, Romaeuropa proponeva la prima visita italiana della compagnia-progetto aperto di Frederick Gravel, coreografo, danzatore, crooner, regista e musicista, che con Usually beauty falis giocava a mosca cieca con la bellezza, riuscendo a afferrarla un numero di volte davvero sorprendente: fra i momenti più straordinari, una danza della fertilità da dervishi contemporanei, su musiche di J. S. Bach. Il pubblico impazzisce, mentre le fondazioni stanno a guardare.