Nell’affastellarsi di ricorrenze (sessant’anni dalla morte di Charlie Parker, cent’anni dalla nascita di Billie Holiday, i settant’anni compiuti l’8 maggio da Keith Jarrett…) un anniversario significativo sembra essere sfuggito ai più.

Dall’esperienza nei primi anni Sessanta dell’Experimental Band – guidata dal pianista Richard Abrams – e da quella duratura della Federazione Musicisti afroamericani Local 208 nasce a Chicago nel maggio 1965 l’A.A.C.M.: Association for the Advancement of Creative Musicians. Questa particolare associazione fu fondata da Abrams (che si guadagnò il soprannome di «Muhal», il primo), dal trombettista- polistrumentista Phil Cohran, dal batterista Steve McCall e dal pianista Jodie Christian. Dopo cinquant’anni l’A.A.C.M. esiste ancora, è un organismo vivo che forma e genera musicisti, animata non solo da «testimoni» di un’esperienza lontana ma da jazzisti di generazioni recenti, aperta al continuo confronto con la realtà musicale e socioculturale.

Lo spessore storico-estetico- sociale dell’A.A.C.M. è stato, in effetti, recentemente testimoniato dall’album Made in Chicago a nome di Jack DeJohnette (Ecm/Ducale, 2015) che vede protagonisti Muhal Richard Abrams, i polistrumentisti Roscoe Mitchell e Henry Threadgill nonché il contrabbassista Larry Gray (vedi box). Nell’Italia jazzistico/concertistica, spesso provinciale, la vivacità della scena di Chicago e della sua associazione «storica» sono stati apprezzati nell’edizione estiva 2009 di «Umbria Jazz». Uno dei maggiori esponenti dell’A.A.C.M., il trombonista e compositore George Lewis – figura poliedrica di artista vincitore del prestigioso premio McArthur nonché docente alla Columbia University – fu intervistato da Enzo Capua per la rivista Musica Jazz: da lì nacque l’idea di commissionare a Lewis un progetto per «Umbria Jazz» e il trombonista coinvolse l’intera associazione. Portò così a Perugia un originale ensemble intergenerazionale di venti musicisti, affidando a vari compositori i sei concerti in programma. Suonarono, tra gli altri, il veterano sassofonista Ernest Dawkins, il giovane vocalist Saalik Zyiad, l’eccezionale polistrumentista Douglas Ewart, i sassofonisti Edward House e Mwata Bowden, lo stesso – strepitoso – Lewis, la violinista Renée Baker, la fascinosa cantante Dee Alexander (a «Umbria Jazz Winter» 2010 e 2011 con il suo Evolution Ensemble), la violoncellista Tomeka Reid e la flautista-compositrice Nicole Mitchell (tra l’altro presidentessa dell’A.A.C.M.: della sua carismatica figura ci parla in queste pagine Flavio Massarutto).

Quella che viene in modo semplicistico definita come la «scuola di Chicago», identificata tout-court con l’Art Ensemble of Chicago (con Lester Bowie, Roscoe Mitchell, Joseph Jarman, Malachi Favors e, in seguito, Don Moye) e assimilata senza troppi distinguo al free necessita, invece, di essere osservata più da vicino. Intanto il contesto storico della nascita dell’A.A.C.M. Esso vede musicalmente moltiplicarsi i centri produttori del jazz (contro la «supremazia newyorkese») ed è fortemente legato all’effervescente situazione della seconda metà degli anni Sessanta con la maturazione di movimenti e partiti radicali, alla situazione critica ed esplosiva di molti ghetti neri, ai primi effetti di una legislazione più egualitaria, strappata dagli afroamericani dopo la lunga stagione della lotta per i diritti civili. In questo senso l’A.A.C.M. fa parte di una serie di realtà socio-sonore che vedono a Los Angeles la Pan Afrikan People Arkestra del pianista Horace Tapscott, a Detroit l’Artists Workshop (1964), a St. Louis il collettivo multimediale Bag, Black Artists Group (1968), a New York il Jazzmobile (1964, attivo ad Harlem e diretto dal pianista Billy Taylor) e il Collective of Black Artists che avrà tra i suoi leader il contrabbassista Reggie Workman.

I jazzisti di Chicago, e non solo, si pongono in un contesto sociale spesso degradato, intendono reagire alla mancanza di scritture o al loro controllo da parte di agenti e sindacati «bianchi», vogliono fornire strutture associativo/educative e spazi di sperimentazione creativa. È bene ricordare che in quindici anni (1950-1965) la «Windy City» era passata dal 14 al 28% dei neri, rispetto alla popolazione globale. I quattro fondatori hanno le idee chiare, preparano uno statuto articolato dando molto rilievo alle radici storico-sonore, puntano sulla scuola di musica che verrà fondata nel 1967. Il programmatico «creative», però, sottolinea l’apertura alle innovazioni e alle sperimentazioni. Come afferma lo studioso e storico Claudio Sessa (in un volume di prossima pubblicazione, seconda parte della sua trilogia dedicata a Le età del jazz, Il Saggiatore; si ringrazia l’autore) «nella disillusa realtà cittadina l’associazione raccoglie subito decine di musicisti fra i quali emergono alcune delle figure centrali degli anni successivi, in primo luogo molti sassofonisti: Roscoe Mitchell, Anthony Braxton, Joseph Karman, Henry Threadgill, John Stubblefield. Ma ci sono anche i trombettisti Lester Bowie e Leo Smith, la tastierista e cantante Amina Myers, i contrabbassisti Charles Clark (…) e Malachi Favors, il violinista Leroy Jenkins, i batteristi Thurman Barker e Philip Wilson. È un vivaio di talenti che si stimolano l’un l’altro, dando vita ad una scuola cui guarda con lungimiranza un’industria discografica locale che (…) ha ancora una buona visibilità».

Grazie, infatti, alle etichette Delmark (ben radicata nel blues) e Nessa (coeva all’associazione) tra il 1966 e il ’69 una dozzina di album testimoniano la musica che fuoriesce impetuosa dall’A.A.C.M. È doveroso subito dire che nei decenni successivi saranno soprattutto le case discografiche indipendenti europee a dare spazio al jazz di Chicago, dalla Black Lion alle italiane Black Saint e Soul Note. Il coraggio e la lungimiranza del produttore Giovanni Bonandrini in particolare darà, a partire dalla fine degli anni Settanta, un significativo spazio discografico ai «creativi» chicagoani e la CamJazz, che ha rilevato quelle etichette, sta editando una serie di cofanetti di ristampe di alto valore documentario (R. Abrams, L. Bowie, G. Lewis, A. Braxton, H. Threadgill).

È ora di andare a vedere i canoni estetico-musicali, i paradigmi, le tracce sonore su cui l’A.A.C.M. – che in Europa, soprattutto a Parigi, avrà come ambasciatori speciali l’Art Ensemble of Chicago e la Creative Construction Company – si muoverà a livello di collettivi e singoli. Si sostituisce il «primato della linea melodica» con «una lussureggiante ricchezza timbrica» (C. Sessa). Molto sviluppato è l’interesse per un polistrumentismo diffuso e radicale che sintetizza «l’interesse per le musiche e le tecniche non occidentali, la ricerca su strumenti autocostruiti, lo studio delle aree sonore più estreme e meno esplorate». Contro la retorica del solista, i chicagoani propugnano una musica collettiva dall’incessante scambio di ruoli, spesso con una componente teatrale-epifanica (legata all’esperienza dell’Arkestra di Sun Ra). Nei brani si assiste spesso ad un repentino concatenarsi di ambiti musicali diversi che da una parte guarda all’antifonia del «call and response» e dall’altra alla circolarità del «ring shout», entrambi archetipi sonori afroamericani come li definirebbe il musicologo afroamericano Samuel Floyd Jr. (per anni direttore dell’istituto chicagoano Black Music Research). È, in effetti, il rapporto con il passato e le radici che è basilare nei jazzisti dell’A.A.C.M.: in primo luogo guardano a tutta la musica nera secondo una definizione di «Great Black Music»; in secondo la utilizzano non in maniera museificante ma secondo una logica ben sintetizzata dallo slogan «Ancient to the Future». «Laici» nella propria formazione e nei riferimenti culturali, però, i chicagoani si interessano anche alla musica contemporanea europea, a jazzisti bianchi (Paul Desmond è un modello essenziale per Anthony Braxton), all’elettronica e non hanno il «feticcio» dello swing, pur conservando un profondo senso del blues unito a un sostanziale disinteresse per la forma canzone. Nei loro brani, come precisa con rara efficacia ancora Claudio Sessa, «il rapido succedersi di immagini sonore diverse, anche fra loro irriducibili, è l’esatto opposto del ‘pastiche’ nel quale ogni elemento successivo annulla il precedente, ma costituisce un complesso intreccio di riferimenti che si potenziano nel messaggio di fondo. E il legame con la tradizione è esaltato anche dalle esecuzioni più radicali, che proiettano sull’ascoltatore un senso sacrale del prodotto musicale».

Proprio per questo è importante non passare sotto silenzio il cinquantenario dalla fondazione della A.A.C.M. Oggi molti dimenticano che il jazz è frutto di una storia complessa e lo riducono a formule stilizzate da imitare, spesso fermandosi agli anni Cinquanta dell’hard bop o verniciando di glamour una musica trasformata – contro la sua vera vicenda – in una ricca «tappezzeria sonora» o in un «fossile musicale». Non è così e la lezione di Chicago è ancora viva e vitale, mentre la situazione socio-economica attuale degli afroamericani – nonostante Barak Obama – sembra essere paurosamente arretrata rispetto agli anni Sessanta.