«Lei non corrisponde alla mia estetica», ha dichiarato Tom Ford a chi gli chiedeva se fosse stato disponibile a vestire Melania Trump che, dal 20 gennaio prossimo, sarà la first lady americana. «Ho rifiutato di creare un abito per lei anche in passato perché non rappresenta la mia immagine. Inoltre, penso che anche se avesse vinto Hillary non avrebbe dovuto indossare i miei vestiti perché sono troppo cari e credo che una first lady non dovrebbe essere legata a nessun stilista», continua Ford in una sorta di proclama estetico-etico, forte anche del successo del suo secondo film Animali notturni, che a Venezia ha avuto il Gran Premio della Giuria.

Negli States, quindi, l’abito diventa improvvisamente uno strumento della politica perché la presa di posizione degli stilisti americani sull’immagine fashion di Melania Trump (anche Diane von Furstenberg, Marc Jacobs, Derek Lam, Philip Lim e Humberto Leon si sono dichiarati indisponibili a vestirla) riporta alla ribalta un discorso dimenticato: cioè la rappresentazione dell’abito come significato della comunicazione della personalità. È inutile, qui, arrampicarsi sugli specchi scivolosi che ha in sé il senso del detto popolare «l’abito non fa il monaco»: basta chiedersi chi riconosce un monaco che non indossa la sua tunica. Ma per esempio, quando Miuccia Prada insiste nel dire che «gli abiti sono idee» non vuol dire che sono frutto delle idee di chi li disegna ma che sono la materializzazione di un pensiero. E, infatti, gli abiti sanno essere veicolo di intelligenza come della stupidità, della cultura e dell’ignoranza, a prescindere dal loro costo, alto o basso.

Nei decenni passati ci siamo accorti di quanto gli abiti abbiano saputo descrivere la società dello scosciamento televisivo, volgarità pura che ha permesso il decennale successo di chi la descriveva attraverso interi guardaroba destinati a raccontare l’arroganza della sopraffazione, dell’inutile vuoto concettuale sfociato, proprio in Italia, nel berlusconismo del conflitto di interessi a ogni livello di ordine e grado. Del resto, la moda questo fa: descrive quanto ha intorno. Ma ha una sua salvezza quando sa fare abiti che rappresentano idee, quando anticipa e propaganda la reazione al decadimento totale della società affiancando le avanguardie di pensiero che soffrono la prevaricazione della maggioranza. Un esempio storico va per forza rintracciato nella reazione contro la cultura schiacciante della ricca borghesia alla fine degli Anni 60 del secolo scorso.

È stato quello il momento in cui la società intera si è rinnovata, il momento in cui il movimento femminista ha preso coscienza della propria dirompenza e che le culture giovanili hanno rotto una complicità intergenerazionale aprendo la strada dei diritti civili. Quella pulsione è sfociata nel Sessantotto (in Francia meglio che in Italia, ma questo è un altro discorso) e nella moda ha significato quella intuizione maliziosa che ha portato Yves Saint Laurent a usare gli strumenti della borghesia contro la stessa borghesia. Questo ha significato, per esempio, il nude look al quale Saint Laurent ha spinto le donne dell’alta società.

Quella camicia di seta trasparente da indossare senza reggiseno era la derivazione dei roghi di reggiseni delle femministe sulle piazze europee, come il tailleur pantalone era la spinta alla liberazione dei gesti femminili. Che oggi si possa arrivare a una simile consapevolezza sembra difficile, anche perché saranno tanti gli stilisti, americani e non, a spedire i loro vestitini alla «White Trump House». Che un seme nuovo sia stato piantato è, comunque, una speranza.

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