C’è uno squarcio verdognolo spalancato tra le nubi di un cielo invernale, un’eterea ferita purulenta dalla quale colano creature demoniache che si abbattono sulla terra innevata falcidiando il popolo e gli eserciti. Il protagonista, che può essere un uomo, un elfo o un cornuto e taurino «qunari» (nonché il rappresentante femmineo di queste razze, dipende dalla volontà del giocatore), si risveglia come unico sopravvissuto dopo un’ecatombe. La mano destra del futuro eroe riluce dello stesso sgradevole verde che ammorba il mondo ed egli realizza, con coscienza messianica, di essere l’unico ad avere il potere di esorcizzare la piaga.

Con questa premessa mistica inizia la sfrenata epopea fantasy di Dragon Age Inquisition che rilancia nell’empireo degli inventori di videogiochi l’americana Bioware, dopo un poco ispirato capitolo della stessa saga e l’indignazione mondiale, ingiusta, seguita al finale di Mass Effect 3: una delusione diffusasi per le piazze virtuali di internet che è costata alla compagnia un’apologia globale e l’ampliamento dell’epilogo del gioco secondo il capriccio del pubblico.
Uscito per PC e per le console della nuova e trascorsa generazione, sebbene su questa perda un po’ del suo lucore, Dragon Age Inquisition è un videogame che può apparire classico, scontato e vittima di tutti i luoghi comuni del genere fantastico se lo si osserva nella sua macrostruttura narrativa o se si legge il riassunto della trama su Wikipedia. Tuttavia la grandezza dell’opera di Bioware va ricercata proprio nel suo spessore enciclopedico che include una varietà smisurata di mitologie e racconti; una cornice su un affresco interattivo che consente a chi lo gioca un epico approccio personale e intimamente soggettivo.

Dragon Age Inquisition è un contenitore fantasy straordinario di azioni, visioni e parole che con una durezza shakespeariana ma senza i sadismi alla R. R. Martin, una poesia se non tolkieniana almeno alla Terry Brooks e una profondità di campo fanta-naturalista che ricorda i lungometraggi sugli hobbit di Peter Jackson, ci precipita in un altro mondo popolato non solo di mostri e demoni da uccidere ma di «persone» da conoscere e ascoltare.
L’aspetto dialettico e diplomatico è fondamentale nel gioco e favorisce dialoghi su ogni argomento e di ogni tono, persino la tenerezza, perché come in altri lavori di Bioware anche qui è contemplato il romanzo sentimentale che può sfociare nell’apice di un rapporto sessuale rappresentato in maniera solo vagamente erotica. E l’amore non conosce i confini del genere, perché può essere sia eterosessuale che omosessuale, non c’è discriminazione nel Ferelden, nemmeno tra razze diverse; così se avete deciso di essere una nana rubizza e muscolosa non è detto che non riusciate a sedurre un’esile elfo dalle orecchie a punta.

Giocare con la sessualità, senza scadere in un voyeurismo fine a se stesso e in una pornografia orientata e ammiccante solo verso un pubblico maschile, è un arte di Bioware in un medium dove si ama poco e si uccide tanto
L’aspetto più entusiasmante di Dragon Age Inquisition è l’esplorazione del suo vastissimo mondo, le cui zone sono rese gradualmente disponibili. Ci sono algide terre montane, boschi intricati che vestono di tinte vegetali le pendici rocciose, valli verdeggianti tra la cui alta erba scorrono torrenti che scintillano al sole, paludi oscure su cui levita un’umida bruma, deserti le cui sabbie si spalancano su lussureggianti oasi, coste flagellate dal moto ondoso e dalla pioggia scrosciante. Non c’è mai monotonia e viaggiare per completare le decine di missioni secondarie consente di rivelare ogni segreto delle ambientazioni e percorrerle da esperto conoscitore e geografo del fantastico.
I combattimenti del gioco sono una miscela tra tattica e azione. Controlliamo il personaggio principale, accompagnato da tre alleati, ma possiamo scegliere di trascorrere in tempo reale da uno all’altro per sfruttarne le diverse caratteristiche marziali. C’è anche la possibilità, tramite la pressione di un tasto, di arrestare la battaglia e passare ad una visuale isometrica che consente una giocabilità strategica e ragionata in cui si lotta a turni secondo le regole del gioco di ruolo classico. Quest’ultima è un’opzione utile solo durante i combattimenti più ostici, oppure se si decide di selezionare il livello di difficoltà più elevato, a rischio e pericolo del giocatore perché, al massimo della sua cattiveria, Dragon Age Inquisition può diventare letale.

Sotto le favolose acque magiche del fantasy c’è anche un substrato sociale e politico che anima il mondo fantastico con la forza del plausibile e lo avvicina al presente con le sue lotte di classe, gli intrighi nobiliari architettati dalle caste e i dissidi sanguinari tra esponenti religiosi. Mentre si avvicina la catastrofe, la danza per il potere sul baratro della fine diviene sempre più macabra e frenetica così che bisogna sapersi destreggiare con astuzia ed etica tra complotti, tradimenti e insperate alleanze.

C’è sempre qualcosa da fare di capitale o insignificante: consegnare la lettera bruciata reperita sul corpo di una vittima all’amato distante, raccogliere i fiori di loto che crescono sulle rive di uno stagno per farne omaggio ad una creatura magica che una leggenda indica come abitante di un lago, recarsi dallo speziale del villaggio di Haven per ideare pozioni con l’ausilio della sua sapienza, cercare tra le selve i luoghi più adatti per trarne il legname, calarsi nel fondo di una caverna in cerca di tesori, mappare le costellazioni tramite incantati strumenti astronomici, cavalcare per il solo gusto di farlo, armarsi contro un drago che sta ardendo i campi incolti di fattorie abbandonate per combattere una battaglia che sembra insormontabile. Oppure, come se fossimo viandanti in un’altra fittizia realtà bucolica e mitica, vagabondare per terre ignote solo per deliziarsi e meditare alla vista di un nuovo panorama a cui neanche il male nega la beltà.