C’è stato un tempo, abbastanza lungo, in cui la politica cercava la sua legittimazione nella storia. È molto recente, e si può collocare attorno alla svolta epocale del 1989, l’affermazione incontrastata (almeno in Occidente) del «nuovismo», della politica che afferma la sua efficacia nella liberazione proclamata e, anche, ostentata, da qualsiasi retaggio del passato. Ma tra Ottocento e Novecento la ricerca di radici nel passato fu propria dei movimenti rivoluzionari come di quelli reazionari, comune fu la ricerca di precursori e convergente fu il ricorso ad analogie storiche di grande impatto emozionale, a immagini eloquenti di una storia nel solco delle quale ci si voleva inserire o dalla quale si voleva rifuggire.
La personalità ingombrante di Benito Mussolini è tra le poche a collocarsi a cavallo di entrambe le tendenze, rivoluzionarie prima e reazionarie in seguito, mostrando riferimenti culturali e modalità retoriche nel richiamo alla storia che mostrano elementi di continuità stilistica pur nel radicale rovesciamento di senso e di richiami.

A questi aspetti del Mussolini socialista e poi interventista, fino all’affermazione del fascismo che si avviava a divenire regime è dedicato lo studio di Paola S. Salvatori, Mussolini e la storia. Dal socialismo al fascismo (1900-1922) (Viella, pp. 221, euro 27). Il grande repertorio dell’analogia storica, per un sovversivo italiano, si basava essenzialmente sul rapporto con la storia romana, con la Francia rivoluzionaria e con il Risorgimento. Su tutti questi scenari storici interverrà un drastico e radicale mutamento di giudizi, tra l’autunno del 1914 e la primavera del 1915. La nuova dislocazione politica del Mussolini interventista comporterà in moltissimi casi il rovesciamento di opinioni e giudizi.

benito_mussolini giovane
Se in passato «romanità» era stata culto di Roma antica, delle virtù repubblicane dell’età consolare, ora diverrà riferimento all’età imperiale. Dall’esaltazione di Bruto, eroe e tirannicida, si passerà a quella di Cesare e Augusto. Pur essendo rinomato nei circoli socialisti come oratore anticlericale il giovane Mussolini non era anticristiano, e coltivava il mito prampoliniano del «Cristo socialista»: l’«eresia cristiana» era anticipazione delle rivolte del proletariato, poi tradite da parte della Chiesa. La Roma cristiana diverrà invece dopo la svolta interventista parte integrante della grandezza romana (e poi italiana), atteggiamento che verrà ribadito nella marcia verso il Concordato.

La stessa città di Roma era stata odiata in numerosi passaggi, quella Roma «città-vampiro», parassitaria, cui si contrapponeva Milano, «capitale morale» e vera culla del mussolinismo. Anche qui il voltafaccia sarà radicale, e il primo provvedimento di alto valore simbolico assunto da Mussolini al governo sarà l’abolizione della festività del Primo Maggio e la sua sostituzione con il «Natale di Roma». L’avverbio «romanamente» diverrà uno dei più ricorrenti nella prosa mussoliniana.

Anche rispetto alla Francia rivoluzionaria, vicenda paradigmatica per tutte le rivoluzioni successive, la visione del futuro Duce abbandonerà progressivamente il culto della plebe in rivolta e si congederà degli echi carducciani del Ça Ira, per acquisire in pieno il mito imperiale di Napoleone, còrso e quindi genio della razza italiana. Nel suo eloquio sarà ricorrente il dileggio per i «sacri principi dell’89». Quanto al Risorgimento, il suo giudizio non si discostava dalla svalutazione corrente nel mondo del sovversivismo per gli esiti del processo unitario, con punte di radicalità nella polemica antisabauda: appena ventenne componeva un suggestivo racconto sulla roccia di Monnetier, presso Ginevra, dove «il castel bigio che vide nascere i Savoia» parlava al giovane rivoluzionario raccontando le gesta infami della «famiglia di predoni» che aveva ospitato. Nei confronti del mito di Garibaldi osservava un ovvio rispetto, che non impediva commiserazione per gli eredi che si ostinavano a tentare di attualizzare il suo lascito: Ricciotti Garibaldi che invitava i giovani a partire volontari per combattere al fianco dei francesi era solo un patetico Don Chisciotte.

Ma qui Mussolini era ancora rigidamente neutralista, per poi cambiare drasticamente opinione abbracciata la causa dell’intervento: il sacrificio di Bruno Garibaldi sarà celebrato nella primavera del ’15 come riproposizione della «santa causa» dell’Eroe dei Due Mondi e la guerra italiana auspicata diverrà anche «garibaldina». Sarà molto diffidente nei confronti di Mazzini e del repubblicanesimo (concorrente diretto dei socialisti in terra di Romagna), sempre critico del mito «pretesco» e dogmatico costruito dai suoi seguaci. Si può dire che solo con la svolta interventista Mussolini si accosti con qualche interesse alla figura di Mazzini, che verrà studiato e anche saccheggiato, trasformato addirittura nel Diario in fonte d’ispirazione diretta per i fanti. E attorno a Mazzini il fascismo costruirà una delle operazioni più imponenti di appropriazione indebita portate a buon fine sul piano culturale. Ma è con la prima guerra mondiale che si osserva un mutamento di paradigma, e anche la parte più originale del rapporto di Mussolini con la storia. Il materiale storico chiamato in causa continua ad essere imponente, ma interviene una novità significativa. Mussolini non è l’unico, ma è certamente tra coloro che vivono la prima guerra mondiale come fonte di nuova storia in atto, da trasformare in mito duraturo e unificante per le masse. Gramsci avrebbe notato nelle riflessioni carcerarie come il Diario di guerra di Mussolini fosse «interessante da studiare… per trovarvi le tracce dell’ordine di pensieri politici, veramente nazionale-popolari».

Avviata già dalle classi dirigenti liberali (all’esaurimento della propria egemonia) sarà costruita attorno alla guerra vittoriosa – ma dalla quale gli italiani erano usciti col risentimento degli sconfitti – la fase terminale della «nazionalizzazione delle masse», che però sarà portata a termine dal regime fascista, in forme capillari e totalitarie. Nel modo di celebrare (e mistificare) la guerra entreranno in gioco tutti gli elementi di «italianismo» preesistenti prodotti nel corso del tempo dall’immaginazione mussoliniana, ma ora con la certezza asserita di un voltar pagina radicale, che poneva in stretta correlazione l’esperienza bellica con il ribaltamento della società liberale e l’instaurazione di un nuovo modello politico.
Non sappiamo per certo se fu effettivamente pronunciata nel ricevere l’incarico la frase sul portare al potere «l’Italia di Vittorio Veneto», ma indubbiamente si trattò sul piano simbolico e propagandistico di una formula riassuntiva di gran parte della costruzione mussoliniana attorno alla storia degli ultimi anni.