Spopolano su twitter video del Presidente irlandese Higgins che esulta al goal di Robbie Brady nella partita contro l’Italia di mercoledì; e qualcuno ha commentato: «Dalla felicità si direbbe che è riuscito a farsi ridare indietro le sei contee del Nord». A Belfast e dintorni, il referendum sulla Brexit è per certi versi visto come un voto sull’Irlanda unita, soprattutto in ambienti repubblicani. A Falls Road, lo storico Felon’s Club in questi giorni di Europei di calcio è tutto un ribollire di fan che tifano Repubblica, all’ombra di bandiere irlandesi, palestinesi e basche. Mancano quelle dell’Irlanda del Nord, che pure si è qualificata agli ottavi. Il sentire tra la gente rispecchia quello dei sondaggi. La maggioranza della comunità nazionalista è, per vari motivi, a favore dell’opzione remain, ma nessuno per via di un entusiasmo verso l’Europa e il suo recente sfoggio di politiche punitive nei confronti di Grecia, Spagna e Irlanda.

A molti, in virtù della consapevolezza d’esser stati un popolo di migranti, non va giù la carta anti-immigrazione giocata dalle destre; ad altri l’idea che a spingere a votare leave sia un sentimento anti-irlandese, dettato dalla più che concreta possibilità che una Brexit indebolisca la Repubblica, e dunque il suo presunto interesse a battersi per un’Irlanda unita. Una riunificazione che è nella mente di molti, nella comunità repubblicana, soprattutto dopo che Gerry Adams ha reiterato quello che il suo braccio destro, e vice primo ministro del Nord, Martin McGuinness, ha chiamato un «imperativo morale», ovvero un referendum sulla United Ireland e sulla legittimità del confine tra le due Irlande, in caso di uscita del Regno Unito dall’Europa.

Ma a spingere i nazionalisti a propendere per restare, pare sia principalmente una propensione antilealista, poiché il maggior partito unionista, il Dup, che esprime il presidente del consiglio, assieme alle frange ancor più conservatrici della destra nordirlandese, sono per uscire. Come lo è qualche formazione minore della sinistra repubblicana, ad esempo Eirigí, che a braccetto degli esponenti antiimperialisti di People Before Profit, sono a favore della lexit (uscita da sinistra – left).

Una posizione che appare secondo alcuni contraddittoria, perché la più probabile conseguenza pressoché immediata della Brexit sarebbe la ricostituzione di un confine, che sarebbe a tutti gli effetti un confine internazionale all’interno dell’isola; questo proprio per via delle politiche migratorie della Eu, in virtù delle quali l’Irlanda, ma anche la Gran Bretagna, sarebbero costrette a controllarlo senza sconti. Con le ovvie ripercussioni economiche negli scambi nord-sud, ma anche politiche e umanitarie. Quasi un muro stile Trump, dicono alcuni; o un’ennesima cortina di ferro, come quelle tornate di moda recentemente in Europa.

È vero che in Irlanda del Nord si accingono a votare poco più che un milione di persone, e difficilmente sposteranno l’ago della bilancia a favore di un’opzione o dell’altra. Quel che è certo è che un’eventuale Brexit verrebbe vista come l’ulteriore decisione presa da un popolo occupante, poco interessato alla volontà e alle aspirazioni di una parte, seppur minoritaria, della sua popolazione. Questo in vista di un’estate che si prevede già di fuoco, per la stagione delle tradizionali marce protestanti a ridosso dei quartieri cattolici attorno al 12 luglio, ma soprattutto di un’altra imponente manifestazione, stavolta nel campo nazionalista: quella contro l’internamento senza processo istituito nel 1971, per cui da 45 anni si è trattenuti e fermati in carcere solo sulla base di sospetti. Di recente l’istituto è tornato in voga, con alcuni fermi eccellenti. La manifestazione, che si annuncia imponente, è prevista per il 7 agosto, e porterà migliaia di persone al centro di Belfast per ricordare un triste passato che purtroppo, in Irlanda del Nord, si chiama sempre più spesso presente.