La memoria non è il passato. La memoria è fame di presente, urgenza di futuro. D’altronde, anche scavando dentro di sé fra i ricordi o nel vissuto, ben poco affiorerebbe oggi, in un mondo senza ascisse di riferimenti terreni che ha perduto anche le poche ordinate capaci di legare le sue tracce nel tempo. Labili tracce, forse piccoli frammenti di un codice destinato, comunque, a rimanere oscuro: ci resta poco e per quel poco che resta non abbiamo chiavi di volta, né mitologie comuni. I simboli non parlano, le tessere non combaciano. Il puzzle diventa un labirinto. E il silenzio è possibile solo quando il rumore ci sovrasta. Ma non è silenzio, è impotenza.

Chi conosce, oggi, le storie di Giuseppe o Aronne, le saghe dei Patriarchi, chi sa guardare non solo dentro astruse eresie, ma nel cuore stesso di quanto, pomposamente, con non meno oscura tenacia qualcuno chiama ancora «Occidente»? Chi riesce a vedere oltre l´immagine, in un’epoca dove le immagini sono diventate come il rumore bianco: brusio costante, costantemente tenuto sullo sfondo? Non inquietano, le immagini, ma saturano. Aggiungono altro non senso al non senso.

CI SI RITROVA COSÌ A GUARDARE, persi tra una folla di curiosi che a sua volta guarda un quadro, in un museo. Potrebbe essere un museo qualsiasi, in una parte qualsiasi del mondo, ma è il Prado, Madrid. Potrebbe essere un quadro qualsiasi, di un qualsiasi artista oramai ignoto al mondo, ma è di Jheronimus o – secondo la menzione latina non sempre mantenuta in verità – Hieronymus Bosch, pseudonimo di Jeroen Van Aeken. Un uomo divenuto invisibile che ha lasciato tanto, forse troppo da vedere a un mondo che non sa più vedere. Ma cosa guardano quei turisti? Che cosa guardiamo, noi, cercando un varco tra le loro teste e i loro smartphone levati in alto come fossero scudi o bandiere? Cosa, soprattutto, guarderemo, domani? Le stesse immagini, con occhi nuovi? O viceversa? Come cambia il nostro modo di guardare un quadro quando altri sguardi vi si sono posati? Le immagini ci guardano e tacciono.

PENSIERI, questi, che Cees Nooteboom condivide con noi. Poeta, romanziere, viaggiatore, autore di romanzi ben noti al lettore italiano – su tutti:  Le volpi vengono di notte,  Perduto il paradiso, Il giorno dei morti, Avevo mille vite e ne ho preso una sola editi da Iperborea, sempre in italiano è da poco apparsa una sua antologia poetica per Einaudi, Luce ovunque (recensito su Alias Domenica il 5 settembre da Herman van der Heide) Nooteboom ci accompagna in questo vortice di domande nel suo breve, folgorante In viaggio verso Jheronimus Bosch. Un oscuro presentimento, magistralmente tradotto dal nederlandese da Fulvio Ferrari per Jaca Book (pp. 74, euro 30). Pittore su cui è stato scritto tutto e di tutto, di cui ogni particolare è stato passato nella lente dell’esegesi più minuta, Bosch resta per noi un enigma. Anche perché esegesi complica, anziché «risolvere». La diremmo una diegesi: riporta dentro, non fuori. In una selva di significati che percepiamo essere lì a portata di mano, ma della quale non possediamo chiavi anche perché, forse, non ve ne sono.

La resa davanti alle immagini è forse l’unico approccio critico che ci rimane. E con la resa, i presagi avanzano. Tre linee si intrecciano nel viaggio di Nooteboom. La prima, lo riporta davanti alle visioni del mastro di ’s-Herogenbosch dopo sessant’anni dal suo primo incontro con Bosch al Prado, quando il giovane autostoppista Cees si trovò in una Spagna dove «i soldati di Franco sembravano tedeschi in una commedia sbagliata». Elmetti neri e baionette, come nel Giardino delle Delizie.

LA SECONDA È LA VISIONE affollata, rumorosa che in pieno giorno, dietro a una folla accalcata davanti a una sua opera gli fa scegliere la notte. La terza è la notte. Una notte in cui restare svegli, affinché i phantasmata non prendano vita. Come ci parlano, i quadri, di notte… E dall’intreccio fra queste tre linee temporali, ricche di suggestive riflessioni, Nooteboom arriva a una quarta visione che non risolve il tutto, ma ne infittisce il mistero. Aggiungere mistero al mistero e spiegare l’enigma attraverso l’enigma, ovvero ricomporre il simbolo facendolo risuonare: questo è il pregio della scrittura pensante del viaggiatore olandese.

Cees Nooteboom giustappone così due immagini: quella del San Cristoforo conservato al museo di Rotterdam e quella fotografica di Nilufer Demir che, nel settembre 2015, fissa la scena di un poliziotto turco. La ricordiamo? Nei pressi di Bodrum, nel sud del Paese, prende in braccio un bambino kurdo-siriano senza vita. Oggi, di quel corpo, sappiamo pronunciarne il nome, ma quasi fosse uno scongiuro. Quasi a dire: «io c’ero, io so». Ma non c’eravamo e non sappiamo. Nessuno c’era davvero e il nome – Aylan – addomestica il ricordo per ridare inerzia alla nostra falsa coscienza.

LA STORIA DI SAN CRISTOFORO è nota o, forse no, nulla è noto oramai. Racconta Nooteboom: «un gigante pagano, di nome Reprobus, trova un bambino sulla riva di un fiume e capisce che vuole attraversarlo. Lo prende in spalla ed entra in acqua. Nel fiume, il bambino diventa sempre più pesante, tanto che il gigante riesce a fatica a portarlo e, quando arrivano dall’altra riva, è esausto. Il bambino era Cristo e da allora quel gigante prende il nome di Cristoforo, è il protettore di tutti i viaggiatori».

Nel quadro di Bosch, databile forse al 1496 e conservato al Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, il santo ha la stessa postura del soldato turco: prende dolcemente tra le braccia il bambino, come nella tavola di Bosch il suo capo è rivolto verso destra, dove siamo anche noi.

«Cammina dando l’impressione che anche questo bambino sia troppo pesante e difatti lo è, per il peso della morte». Troppo pesante per l’Europa perché, conclude amaramente Nooteboom, l’Europa non esiste. Non servirebbero santi o giganti, ma uomini che sappiano prendersi in spalla questi bambini. Ma non ci sono. Non ci siamo. Ci sono solo immagini che non comunicano più niente a nessuno. E tanto dolore muto, perso nel brusio delle cose.