Un articolo de «L’Espresso» sul rapporto tra psicoanalisi e neuroscienze, promuove tesi la cui banalità, che è un buon viatico per la popolarità, pone, nondimeno, questioni importanti sulla produzione e l’uso del sapere scientifico in generale.

Spinta da alcuni psicoanalisti orfani della concretezza e della materialità, si aggira, da un po’, per il mondo la «Neuropsicoanalisi»: uno sposalizio tra i neuroni e la soggettività che, proclamatosi “Nuova Scienza”, è alla ricerca di notorietà e di credibilità. L’ultimo suo fiore all’occhiello è uno studio riportato nell’articolo: usando tecniche sofisticate che filmano l’attività cerebrale, si è visto che trattamenti psicoanalitici brevi producono un aumento delle connessioni tra i neuroni. Da ciò si è arrivati alla conclusione di una convalida scientifica della psicoanalisi. In realtà, lo studio è l’ennesima conferma della plasticità cerebrale, del fatto che la vita neuronale è estremamente dinamica, plasmabile dai desideri, sentimenti e pensieri a cui fa da supporto e non un’infrastruttura rigida e sovradeterminante.

Che la psicoanalisi, come tutte le esperienze emotivamente significative, trasformi le dinamiche e le strutture cerebrali, dovrebbe essere dato per scontato (cercare di provarlo denota una certa ambivalenza nei suoi confronti). Che la psicoanalisi trasformi la vita delle persone che cura, liberando la loro voglia di vivere, attraverso l’elaborazione del lutto e del dolore, questo i fotografi del cervello non possono confermarlo, né smentirlo. L’analisi quantitativa dell’attività dei sistemi neuronali e delle sue modificazioni non può dare conto della qualità affettiva della nostra esistenza se non in modo molto indiretto e vago.

Sarebbe ben strana e inquietante una società del futuro in cui gli psicoanalisti per fare il loro lavoro dovrebbero consultare un dispositivo di immagini (possibilmente wireless) dell’attività cerebrale, di modo da adeguare le loro interpretazioni alle sue risposte e non a quelle dei loro pazienti. E sarebbero assai alienati quelli pazienti che, sempre nel futuro, per verificare il cambiamento ottenuto dal loro lavoro analitico, facessero affidamento alla videoregistrazione del cervello e non alla propria esperienza.

Stentiamo a renderci conto di come una certa fiducia acritica nel “progresso scientifico”, identificato tout court con la tecnologia, stia promuovendo, in modo sotterraneo, il disimpegno soggettivo dalla vita. Ciò che la più perfetta delle tecnologie mai catturerà, per registrarlo e riprodurlo a volontà, è il gesto espressivo, creativo della soggettività che trasforma l’immagine in azione. La differenza tra la soggettivazione dell’esperienza nella seduta analitica e l’obiettività dei dati visivi delle neuroscienze, è la stessa che intercorre tra questi dati e un quadro di Giorgione o un film di Bunuel. La misura di questa differenza è l’immaginazione.

Nel lavoro psicoanalitico come nell’arte (a prescindere dal diverso valore estetico delle due cose) l’immaginazione (che rende accessibile al desiderio e al sogno la realtà) è il gesto mosso dalla passione, che diventato azione non si compie mai ma resta in movimento, gettando il soggetto in un perenne uscir fuori nel mondo.

Quale oltraggio per la Stabilità, dea non fantascientifica della tecnologia. Uno dei neuropsicoanalisti citati nell’articolo lavora a un progetto di riassetto dell’attività cerebrale che, usando un termine metallurgico, paragona alla “ricottura” di molecole surriscaldate e poi riportate a uno stato più stabile del precedente”. Ci si salvi come si può. Prima le donne e i bambini.