Questa rubrica ha richiamato l’attenzione del lettore su argomenti che riguardano la corrente persistenza del ‘virtuale’ nel quotidiano. Ricorro qui al termine ‘virtuale’ per designare quella permanente proliferazione di immagini (altro ragionamento, se pur contiguo, va fatto per i suoni) che si offrono alla nostra percezione: la circondano da ogni lato, la delimitano, la condizionano fino a signoreggiarla. Attraverso la televisione, le camere a circuito chiuso, i video games eccetera.

Attraverso le immagini che a nostra volta noi produciamo ed elaboriamo a mezzo di smartphone, Ipad, Iphone, selfie eccetera. Alludo al già dilagato e ora tracimante, simultaneo e pervadente universo dei social network, da parallelo divenuto intimo, capace di assorbire e trasformare, evidenziare e annullare, esaltare omologando ogni singola e personale determinazione. (Imparo da un recente scritto di Alan David Baumann, «Selfie e arte» – in «Cheese! Un mondo di selfie. Fenomenologie d’oggi», curato per Mimesis da Vittorio Pavoncello, con una prefazione di Furio Colombo – che sommano già a ventidue i generi che contraddistinguono i selfie: dal Belfie – fondoschiena – al Tongue out, ‘lingua di fuori’; dal Nelfie, le proprie unghie, al Museum selfie e al Funeral selfie. Eccetera).

Riguardo dunque alle miriadi di immagini che pullulano affiorando senza sosta nei social network, mi soffermo su uno specifico e peculiare elemento: la loro luminosità. Esse vivono d’una luce propria che non è portata o proiettata.

Non siamo noi o l’ambiente a conferirla. Al contrario, proviene dal loro interno e, a ben dire, è una luce che ‘ci illumina’. La luminosità radiante che promana da un ordinario ‘mobile phone’ marca una strepitosa distanza dalla luce naturale (salvo, forse, il pieno sole). E, per il fatto d’esser recinta e concentrata in uno schermo, quella vividezza ‘innaturale’ sanziona un netto scarto con quanto le sta d’attorno. Quella scatola contiene un affaccio che si misura in pollici e mi fornisce uno splendente mondo a parte, smagliante nella sua brillantezza immutabile, in ogni momento a mia assoluta disposizione e attivo in ogni luogo: digito il tasto «vi sia luce» e «facta est lux».

Guardo il mio volto irraggiare quella lucentezza fulgente ora che ho immesso il mio selfie nello sterminato social. Per ben impostare lo studio delle ‘immagini virtuali’ dei social eccetera, è a mio parere necessario operare una distinzione preliminare: esse non vanno equiparate o confuse con le immagini fotografiche o cinematografiche. E, men che meno, con opere pittoriche, dalla veduta all’autoritratto. Varrà forse la pena tornare su questi argomenti, precisando i termini puntuali che chiariscono e stabiliscono certe radicali differenze nascoste nelle apparenti somiglianze e affinità.

Stiamo intanto al tema qui sollevato: la luminosità dall’interno che emana dalle ‘immagini virtuali’. Mi sentirei di suggerire che, nella storia delle immagini, il precedente più significativo a questo riguardo è costituito dalla secolare tradizione dei dipinti a fondo d’oro, non atmosferico o di paese. In essi vibra la luce incorruttibile di un altro mondo, inalterata ed eterna. Illumina santi e sante nella loro gloria, al cospetto della Madre e del Figlio. Qualche riga sopra, lo svolgimento di queste sommarie considerazioni mi aveva condotto ad alludere al versetto biblico della Genesi. Ora il discorso inclina verso una appropriata esegesi dell’icona. Mi avvedo che una riflessione approfondita sulle immagini nel social, per esser ben articolata e proficua, ha da avvalersi opportunamente di competenze teologiche.