Impeachment riuscito, golpe a Brasilia senza carri armati. Del resto, siamo nel 2016 e non nel 1964, o nel Cile del 1973. La destra ha rialzato la testa nominando presidente fino al 2018 Michel Temer, incolore centrista del partito Pmdb, senza investitura popolare. L’unico precedente brasiliano di impeachment risale al 1993, quando fu destituito con la stessa procedura il presidente Fernando Collor de Melo. Ma se tutto questo è stato possibile, capovolgendo i rapporti di forza in Parlamento e mettendo i minoranza Roussef e il Partito dei lavoratori non è responsabilità solo dell’imperialismo yankee e della destra liberista che fanno il loro mestiere. Un groviglio di contraddizioni ha avvolto pure la politica del governo. E a preoccupare sono le difficoltà che incontrano altre esperienze progressiste latinoamericane: dal Venezuela al Cile, dalla Bolivia all’Ecuador. Tanto da far temere lo stop del ciclo progressista degli ultimi anni. L’analisi deve essere perciò attenta e non superficiale.

Ci eravamo fatti un’immagine del Brasile che non prevedeva contraddizioni e colpi di scena traumatici. Sesto o quinto paese al mondo per Prodotto interno lordo, nona potenza mondiale in procinto di surclassarne una del G8. Finalmente il paese monstre, per territorio e potenzialità, dell’America latina sembrava in grado di occupare un ruolo adeguato nella politica mondiale. Gli strabilianti risultati economici erano stati raggiunti dalle presidenze della Repubblica dell’ex leader sindacale Lula, alias Luiz Inácio da Silva, (2002-2008) e da Dilma Vana Rousseff Linhares (in carica dal 2011), entrambi dirigenti del Pt e dalla biografia segnata dalla lotta per il ritorno della democrazia dopo il golpe militare del 1964. Da qui le suggestioni positive che ogni osservatore di sinistra poteva trarre dai risultati raggiunti in poco più di un decennio dai governi progressisti del Brasile, pur sapendo che alcune contraddizioni covavano sotto la cenere. Ad esempio la corruzione che si annidava in molti settori del Pt (molteplici i casi a livello territoriale, alcuni ministri costretti a dimettersi, perdita di prestigio), le richieste inevase del Movimento dei senza terra sul destino della Foresta amazzonica, il permanere delle favelas a pochi chilometri dalle spiagge di Rio de Janeiro.

Nei giorni di giugno 2013, quelli della Confederations Cup, prova del budino dei Mondiali di calcio dell’anno successivo, l’immagine del Brasile cambiava di colpo a causa del raddoppio del costo dei trasporti urbani e del forte rincaro delle tasse scolastiche e universitarie. Massicce manifestazioni di massa si svolgevano nelle principali città brasiliane svelando l’insoddisfazione popolare per le politiche del governo di sinistra. La composizione sociale di quelle manifestazioni era un dato su cui riflettere: non masse di sottoproletari di periferia (come spesso avviene in questi casi in altri paesi dell’America Latina), bensì giovani studenti e in generale giovane classe media che non ce la faceva a tenere il passo – per salari e consumi – della locomotiva economica Brasile di quel periodo.

Grazie alle politiche orientate da Lula e Roussef, 35 milioni di brasiliani hanno però lasciato la povertà e sono diventati classe media. Le statistiche made in Brasilia parlano di una composizione del paese fatta di 50% di classi medie impegnate soprattutto nei servizi, di 27% di poveri in senso lato, di 20% di ricchi e 3% di inclassificabili. 28 milioni di nuovi posti di lavoro sono stati creati negli ultimi dieci anni, tanto che gli osservatori più ottimisti parlavano addirittura di «piena occupazione» in divenire. Importanti investimenti sono stati fatti anche in tecnologia, ricerca e innovazione per migliorare i comparti dell’industria e dell’agricoltura. In più, debito pubblico e inflazione – tradizionali mine vaganti del Brasile – erano fino a poco tempo fa sotto controllo. Ma proprio i risultati positivi delle politiche di Lula e Roussef hanno provocato nuovi problemi sociali e politici. È il 50% di classe media a chiedere di migliorare la qualità della scuola pubblica, della sanità, del sistema pensionistico che rischia la paralisi per via dell’invecchiamento della popolazione (altro buon risultato innegabile delle politiche di Lula e Roussef). Inoltre il real, la moneta locale, forse era quotata troppo in relazione al dollaro, il che ha minato le capacità di esportazione mentre le infrastrutture restavano inadeguate per il programma di accelerazione della crescita scelto negli ultimi anni. I sondaggi infine indicavano nell’ultimo anno che la popolarità della presidente Roussef era scesa in pochi mesi dal 70 al 57%, e poi ancora sotto il 50. Intanto la crescita dell’economia brasiliana si è quasi del tutto bloccata per effetto della crisi internazionale che ha raggiunto pure l’America latina. Facile per la destra colpire Roussef con l’impeachment accusandola di aver falsificato i dati del bilancio statale.

Che conclusione provvisoria trarre dalle giornate brasiliane dell’agosto 2016? Diventare la nona potenza mondiale non è facile e reca con sé contraddizioni sociali che solo l’intelligenza e la saggezza della politica possono aiutare a sciogliere. Ogni obiettivo raggiunto da una politica progressista e di sinistra apre nuovi scenari più ambizioni, soprattutto in una realtà che per più di vent’anni ha conosciuto un regime militare che spegneva ogni aspirazione sociale e di progresso. Sono così giunti al pettine i tradizionali problemi del Brasile: debolezza dei partiti e della democrazia, composizione sociale non strutturata, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato che gioca sulle insoddisfazioni e sulle promesse facili, economia dipendente dall’esterno. Che poi sono le questioni assillanti quasi tutte le realtà dell’America latina. E che fanno temere il peggio dopo più di un decennio nel quale il vento soffiava da quelle parti decisamente a sinistra.