Se c’è una sodale che – avesse avuto il tempo – Cristina Campo avrebbe potuto aggiungere alla sua lista di Imperdonabili, la scelta sarebbe caduta su Flannery O’Connor, la scrittrice cattolica del profondo Sud degli Stati Uniti, della quale la poetessa italiana mai parla nei suoi scritti ma che certamente fu tra le sue ultime letture. Gli «imperdonabili» di un suo saggio degli anni sessanta sono i rari «trappisti della perfezione», gli inflessibili, i meticolosi della scrittura e della visione, coloro che, dotati di «grazia, leggerezza, ironia, sensi fini, occhio fermo e difficile» si votano alla «castità, obbedienza, povertà»: gli stati mentali che quella passione perfettista e «sacrificale» impone. C’è ancora altro che si può accreditare alla comune «imperdonabilità» di queste due contemporanee, le quali, pur distanti per universi geografici e sapienza genetica, nella loro ricerca spirituale condivisero una medesima devozione al mistero religioso e ai rituali liturgici, lessero alcuni degli stessi autori (Léon Bloy, Mauriac, Simone Weil, Maritain), e coltivarono una mistica moderna attiva, non immune talora da imperdonabili impennate eterodosse.

Flannery O’Connor visse la sua giovinezza a Savannah, in Georgia, e gli anni della maturità nella fattoria di famiglia a Milledgeville – molto più addentro nel territorio della Bible Belt –, dove si confinò dopo la scoperta, nel 1950, del «lupus eritematoso», la malattia deformante che l’avrebbe portata alla morte nel 1964, all’età di trentanove anni. Nei due romanzi (La saggezza nel sangue, Il cielo è dei violenti) e i trentadue racconti che ha lasciato, di quest’area geografica a prevalenza protestante-radicale, severamente segregazionista, popolata da un’alta percentuale di neri, «poveri bianchi» e un residuo di decaduta aristocrazia di campagna, O’Connor fa l’arena infuocata in cui i suoi personaggi combattono con o contro Dio, attraversando esperienze estreme, violente, grottesche, comicamente sacrileghe, culminanti – quando va bene – nella catarsi di una sofferenza redentiva, quale unico snodo verso la salvezza dell’anima. Sulle sue creature (riprese dal ‘vero’), il loro fondamentalismo e l’asprezza antropologico-culturale del contesto, O’Connor verifica, spesso sardonicamente, la sostanza dei misteri teologici cardinali del Cristianesimo (colpa, perdizione, grazia, redenzione, eucarestia), sorretta da una scrittura rigorosa, graffiante, e dal pilastro della fede – la lezione tomista in particolare – che l’ha dotata di ‘sangue sapiente’.

Con l’eccezione di un viaggio a Lourdes e a Roma (da Pio XII) nel 1958, l’unica sua evasione dal sanguigno paesaggio domestico fu il felice soggiorno post-universitario a Nord, presso lo Iowa Writers’ Project (dal gennaio del 1946 al settembre del 1947) e, poi, nella comunità letteraria di Yaddo (dove, si bisbiglia, prese una sbandata per Robert Lowell), e, quindi, per alcuni mesi, a New York e nel Connecticut: mondi più laici, freddi, agli antipodi della Georgia. E fu nell’eterotopia di Iowa City che ella iniziò a stendere un diario di colloqui a tu per tu con Dio. Rinvenuto di recente fra le sue carte dall’amico W. A. Sessions – l’autore dell’attesa biografia ufficiale di O’Connor – il Diario di preghiera, pubblicato negli Stati Uniti nel 2013 con una riproduzione anastatica del manoscritto, appare adesso in Italia (traduzione di Elena Buia e Andrew Rutt, prefazione di Mariapia Veladiano, introduzione di W. A. Sessions, Bompiani, pp. 110, euro 11,00).

Cos’è la preghiera per questa cattolica ventiduenne del Sud catapultatasi in un ambiente intellettualmente scettico, votato non all’evangelismo ma alla creazione artistica? «O Dio, Ti prego rischiara la mia mente. Ti prego rendila pulita … Non intendo rinnegare le preghiere tradizionali che ho detto per tutta la vita; ma le dico e non le sento». C’è da supporre che furono numerose le tentazioni, le sfide agnostiche (come pure le vanità) che si presentarono alla dirittura religiosa della giovane O’Connor, se ella sentì il bisogno di invocare aiuto («Ho paura di mani insidiose Oh Signore che brancolano nel buio della mia anima») sia per non perdersi sia per trovare – quasi in capzioso commercio con Dio – un compromesso tra nuove aspirazioni e l’integrità del suo stigma spirituale: «Vorrei tanto riuscire a avere successo in questo mondo riguardo ciò che voglio fare. Ti ho pregato per questo motivo con la mente e i nervi». Ecco lo sgorgare di una preghiera tutta sua (con la mente e i nervi), spesso vacillante nei toni, più mondana nelle attese: «Caro Dio, non voglio che questo sia un esercizio metafisico, ma un qualcosa in lode di Dio … Le preghiere, lo capisco, dovrebbero contenere (momenti di) adorazione, contrizione, ringraziamento e supplica … È l’adorarTi, caro Dio, che più mi sgomenta … Concedimi la grazia, caro Dio, di vedere la desolazione e la miseria dei luoghi in cui non sei adorato ma profanato». Forse assediata da circostanze che temeva svianti, O’Connor prega e supplica per un apostolato nella vita che possa accontentare entrambi, lei e Dio: «Ti prego, fa’ che i princìpi cristiani pervadano la mia scrittura e fa che i miei scritti (pubblicati) siano numerosi abbastanza per diffonderli. Ho il terrore, oh Signore, di perdere la fede. La mia mente non è forte. È preda di ogni sorta di cialtroneria intellettuale. Non voglio che sia la paura a farmi restare nella chiesa. Non voglio essere una codarda che sta con Te per timore dell’inferno». E quindi, dopo questa sorta di taglieggiamento, promette di piegare la sua volontà a quella del «Padre», farsi suo tramite, voce e «strumento» della sua «storia».

Come già Emily Dickinson un secolo prima, O’Connor non teme (o si presta al gioco astuto e infantile) di diminuirsi, farsi piccola, fragile, indegna («La mia intelligenza è così limitata»; «Io sono stupida, stupida quasi quanto le persone che metto in ridicolo … Non valgo molto»; «Devo crescere»; «Forse sono mediocre»), affidandosi nella scrittura a una retorica eufemistica, e mettendo in atto un giocare al gatto e al topo, in modo da guadagnare lo sguardo generoso del suo invisibile interlocutore. Inutile precisare che ella ha invece un’alta opinione di se stessa, e lo dice chiaro e tondo anche a Dio: «voglio essere intelligente e mi piace essere intelligente & voglio essere considerata tale». Il suo diario di devozioni trabocca tuttavia di stilemi da captatio benevolentiae: «Per favore aiutami caro Dio a essere una brava scrittrice e a riuscire a far accettare qualche altra mia opera. Certo, questo è così lontano da ciò che merito, che naturalmente sono colpita dalla mia sfrontatezza». E Dio l’accontenta, le dà infine «una storia» da scrivere.

Ma non basta, la storia che ella va componendo per Grazia ottenuta deve essere anche di qualità, e per renderla tale pretende che sia Lui a prendersi «cura di farla sembrare una buona storia». Quella storia, dirà più avanti, vuole scriverla «per un’intenzione buona & per una cattiva. Quella cattiva è al di sopra di tutto»: si tratta dei primi germi del perverso La saggezza nel sangue. «Quello che chiedo – ammette infine la supplice – è davvero molto ridicolo. Oh Signore, vado dicendo, al momento sono una scamorza, fai di me una mistica, immediatamente». Immediatamente, senza perdere tempo, se non quel tanto che le serve per correggersi e trasformare la «scamorza» in una «falena»: una falena imperdonabile che (addirittura!) «vorrebbe essere re, una stupida cosa indolente, una cosa sciocca, che vuole che Dio, il creatore di tutta la terra, sia il suo amante. Subito».