L’Imu è stata l’oggetto principale del contendere nella formazione del programma fiscale del governo, con una maggioranza costituita dal Pdl, che ne chiede la totale abolizione sulla prima casa, e dal Pd, che invece in campagna elettorale ne proponeva una revisione nel senso della (non meglio specificata) equità. La presentazione da parte del ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni del dossier contenente le nove proposte di revisione dell’imposta municipale unica sugli immobili è l’occasione di un nuovo scontro.

In termini generali, le ragioni teoriche e pratiche per il mantenimento di un’imposta sui patrimoni immobiliari, comprese le prime case, ci sono tutte, e molte polemiche, da questo punto di vista, sono pretestuose o figlie di una asserita (ma non motivata) necessità di «tutelare la prima casa». Le imposte patrimoniali esistono in tutti i paesi del mondo, per ragioni di efficienza e di equità.

Il patrimonio rappresenta un buon indicatore della capacità contributiva, è sufficientemente stabile e tendenzialmente più facilmente accertabile rispetto al reddito. Il patrimonio immobiliare, in particolare, si presenta come la base imponibile ideale per le imposte locali, in quanto la sua valorizzazione dipende almeno in parte dai servizi offerti sul territorio ma non si presta a fenomeni di concorrenza fiscale. A queste considerazioni di carattere generale, che infatti portano pressoché tutti i paesi europei a prevedere forme più o meno incisive di tassazione immobiliare, si aggiungono motivazioni legate specificatamente all’Italia. Nel contesto di una pressione fiscale complessivamente alta, con aliquote effettive particolarmente elevate sui redditi da lavoro dipendente medio-bassi, l’esenzione del patrimonio è iniqua ed efficiente. Inoltre, tassare i patrimoni consente di colpire i risparmi generati dall’evasione fiscale.

E’ dunque condivisibile che il dossier di Saccomanni sottolinei, innanzitutto, che l’abolizione tout court dell’Imu sulla prima casa non è ragionevole sotto il profilo dell’efficienza e dell’equità. Tra le otto alternative considerate, quattro si riferiscono all’Imu sulla prima casa (ma, di queste, una si limita ad agire sulla prima rata) mentre altre quattro hanno caratteristiche più generali. Conviene soffermarsi sulle seguenti proposte: incremento della detrazione selettivo e non selettivo e derubricazione dell’Imu ad un problema di finanza locale.
L’incremento non selettivo della detrazione dell’Imu sulla prima casa, oggi pari a 200 euro, viene simulato nel dossier Saccomanni per ammontari crescenti, fino a 500 euro. Data la natura non selettiva, non stupisce che i suoi esiti redistributivi siano negativi, nel senso che esso tenderebbe a privilegiare i proprietari di immobili di valore (presunto) maggiore.

L’incremento selettivo delle detrazioni viene invece legato a tre diversi indicatori: reddito dichiarato dal proprietario, Isee familiare e valore dell’immobile. Il primo non appare opportuno, in quanto i redditi dichiarati sono distorti dall’evasione. Il problema viene in parte attenuato nell’Isee, di recente riformulato, ma qui sorge la difficoltà legata all’attuazione amministrativa, che probabilmente richiederebbe adempimenti onerosi per i contribuenti, molti dei quali oggi non hanno bisogno di calcolare l’Isee. L’ancoraggio ai valori dell’immobile, invece, è la soluzione più coerente con la natura patrimoniale dell’imposta, ma risulta ben poco attraente se tali valori sono misurati dalle rendite catastali, che,come noto, non riflettono il valore di mercato dell’immobile. Per valutare quest’ultimo, il dossier ipotizza il ricorso alla banca dati dell’Osservatorio del mercato immobiliare, che fa parte dell’Agenzia delle Entrate (http://www.agenziaterritorio.it/?id=590) e che rileva, con buon grado di dettaglio e sull’intero territorio nazionale, con periodicità semestrale, i valori medi di compravendita e locazione di immobili ordinari.

Questa appare senza dubbio la soluzione preferibile, sia dal punto di vista dell’equità, perché consentirebbe di tassare maggiormente i proprietari di immobili il cui valore è effettivamente più elevato, sia dal punto di vista del gettito, perché, dato che i valori di mercato sono mediamente superiori alle rendite catastali, consentirebbe grandi margini di flessibilità. Ad esempio, sarebbe possibile ridurre di circa la metà il peso sull’Imu sulla prima casa applicando l’aliquota del 3,5 per mille sul valore di mercato di tutti gli altri immobili. Come sottolinea il dossier, ciò comporterebbe una migliore distribuzione del prelievo sia verticale (beneficio per i più poveri, correlati a fabbricati siti nelle periferie), sia orizzontale (beneficio per i Comuni con valori catastali oggi più vicini a quelli di mercato).

L’ipotesi che appare preferita dal Ministro (e probabilmente dagli stessi Comuni) consiste nell’attribuzione ai Comuni di nuove risorse destinate ad alimentare il fondo di solidarietà comunale prevedendo contestualmente per gli stessi enti la facoltà di ridurre l’aliquota di base sull’abitazione principale fino ad azzerarla. Quest’ipotesi è coerente con l’ipotesi federalista ma necessiterebbe probabilmente di essere coordinata con le precedenti, ad esempio prevedendo che i Comuni debbano amministrare l’esenzione rispettando taluni principi direttivi, tra cui, ad esempio, l’ancoraggio ai valori di mercato. Ciò per evitare che venga meno un indispensabile livello minimo di omogeneità del prelievo fiscale sul territorio nazionale.