Treno. Davanti due gemelle di vent’anni: diversificate solo da taglio di capelli di una delle due, studentesse. A Firenze sale una famigliola asiatica che parla inglese: lei è la prima donna dai tratti orientali che dimostra i suoi anni, il marito un bell’uomo nonostante i bermuda, i due figlioletti – maschio cicciottello vestito interamente Gap, bimba filiforme, chiacchierina, con vestito colorato e cappello di paglia fiorentino. Accanto a me, per far stare tutti assieme i componenti della famigliola, si siede una romana espansiva, corpulenta, che fa l’uncinetto (aveva proposto allegramente lo spostamento di sedile: «pur’io so’ ‘na madre de famiglia!»). Risponde al telefono, chiacchiera nonostante i miei sospiri, le formule romane son tutte declinate, tutte le elle diventano erre, come i cinesi ma all’incontrario, non riesco più a leggere, la odio.

L’aria condizionata va a mille, indosso tutti gli indumenti reperibili nella borsa, la Romana accanto in sandali e t-shirt e grasso in eccesso. Il mio naso ghiacciato protesta: ridatemi l’estate. Scendo. Vaporetto. Commetto l’incauto errore di chiedere un’informazione ad un abbronzato quasi cinquantenne con codino grigio e maglietta sul rosa. Passa i seguenti 35 minuti a parlarmi dei percorsi delle imbarcazioni dal lido a San Zaccaria, alle Zitelle e ritorno. Di una gentilezza disarmante che tuttavia mi riporta alla mente una scena meravigliosa di Come sposare una figlia ( Minnelli, 1958) in cui un personaggio noiosissimo parla solo dei suoi tragitti in auto per Londra che passano immancabilmente tutti per Marble Arch.

Scesa dal bus (che non dovevo pagare avendo già il biglietto del battello, così mi ha assicurato Codino) incrocio un noto critico e autore televisivo che, da anni, mi ha tolto il saluto, spero in buona fede. Siamo soli, uno davanti all’altro, mezzogiorno di fuoco alle due, forzo la mano e lo chiamo per nome e cognome: «ma non mi saluti mai!». Si giustifica che l’ultima volta che ci siamo visti, durante un’intervista che gli feci per un mio documentario, era tanti anni fa, il 2003 preciso. Poi mi chiede: «Hai qualche film qui?». «No, ho una rubrica sul Manifesto». «Il Manifesto…» ripete allontanandosi, come un’eco nel deserto. Prendo l’accredito e mi metto ad aspettare la ragazza con cui dividerò la casa (ora in sala a vedere il primo film) in spiaggia sul molo davanti al Palazzo del cinema. Bagnanti felici di varia età accanto a me fanno il bagno, si rilassano. L’aria del festival ha da venire. Sul lungomare si lavora per finire di costruire in tempo le attrezzature che, da domani, conterranno la folla cinefila. Nell’Attesa (prima ancora di quella che vedremo nel film in concorso di Piero Messina) mi farei un Bigger Splash (Luca Guadagnino).

1997. Stesso molo stesso festival. Gabriele Muccino giovane bello e balbuziente insegue sul cemento ardente Domenico Procacci con copione alla mano. Il produttore, non so come, riesce a defilarsi, ma Gabriele non demorde: «Ora lo becco all’Excelsior» e parte. Com’è finita lo sanno tutti. La coinquilina arriva, le sono grata, mi stavo squagliando vestita sotto il sole. Camminiamo con le valige fino alla casa che sarà oasi, ristoro, pace dall’orgia cinematografica e umana dei prossimi giorni. C’è un regalo per me, a sorpresa: abito in via delle sirene. Cosa volere di più? Che la Mostra abbia inizio.

(fabianasargentini@alice.it)