Passata la prima settimana di Mondiale, viste le squadre in campo, si possono dire due cose: a) finite le scuole nazionali, nel calcio di oggi ci sono squadre costruite per tenere palla e squadre costruite per rubare palla; il processo non è nuovo, traduce in schemi la guerra tra guardiolisti e mouriniani, tiki-taka vs. contropiede in corso da anni nell’empireo dei grandi club europei. b) il calcio professionistico di oggi è definitivamente gentrificato, come si dice della trasformazione sociale di certi quartieri ex popolari delle città; la conquista dell’antico Eden calcistico del Brasile (là dove il calcio si giocava da bambini sulla spiaggia a piedi nudi…) rende definitivo un processo (inevitabile?) iniziato esattamente venti anni fa nel Mondiale costruito dal nulla negli Stati Uniti.

Ci sono legami tra questi due processi, tra l’estetica (diciamo così) e la sociologia del calcio? Vediamo. La partita Olanda-Spagna 5-1, una di quelle più sorprendenti e celebrate fin qui è stata – e resterà comunque vada – paradigmatica: l’Olanda chiusa in trenta metri come una testuggine romana (in totale spregio della sua tradizione calcistica), la Spagna a ruminare un tiki-taka lento e invecchiato come i suoi protagonisti, campioni del mondo in carica. Qualcosa del genere si è visto pure nei pareggi tra Brasile-Messico e Iran-Nigeria, persino, e nell’attesissima Belgio-Algeria, dove i nordafricani hanno chiuso ogni linea di passaggio finché da uno strappo nella tela (bel colpo di testa del belga-marocchino Fellaini) sono usciti i due gol della vittoria.

Sono gli strappi nella tela, in un calcio che viaggia nel mondo dei Big Data quelli che alla fine risolvono più spesso le partite. Gli strappi, e quelle che in gergo tecnico si chiamano situazioni di palla inattiva: calci d’angolo, punizioni (di grande effetto scenico, a proposito, la bomboletta spray in dotazione all’arbitro per segnare il punto esatto della battuta e della barriera nelle punizioni).

Una parola andrebbe spesa anche per la nostra Nazionale – da mettere nel novero di quelle che «tengono palla» – per la sua disposizione tattica ingegnosa, flessibile (quasi una versione del made in Italy adattata alle speranzelle renziane) costruita sugli uomini a disposizione di Prandelli a cominciare dal «professore» Pirlo e dal rapper Balotelli, universalmente lodata dopo la vittoria contro l’Inghilterra.

Benino le altre star. Messi, alla fine, ha segnato il gol che aspettava da anni. Cristiano Ronaldo, poveretto, momentaneamente offuscato dalla forza tranquilla della Germania, forse la squadra più convincente all’esordio. Come da copione, la narrazione quotidiana si arricchisce di personaggi e eventi minori, spesso unici. In Rete si macina di tutto, in quantità mai neppure immaginate soltanto vent’anni fa, dai tweet dei calciatori alle analisi dottissime, tecnicissime e verbosissime e dei cosiddetti hipster calcistici.

L’Iran ha una punta centrale che vive in Olanda, suona il violino, è un danzatore sufi (pare), studia lingue e diritto. Si chiama Reza Ghoochannejhad, per comodità Reza. Negli Usa affidati a Jurgen Klinsmann si scopre il solito campionario di irregolari come il centrocampista rasta Kyle Beckerman. Nel giorno della riapertura della biblioteca di Sarajevo, la Bosnia Erzegovina scende in campo con Miralem Pjanic e impegna l’Argentina di Messi. Per il grandissimo pubblico, infine, Neymar piange all’inno brasiliano, si stinge e si ritinge i capelli di biondo, pubblicizza un intero supermercato di merci, in campo si danna per mostrare i suoi numeri, segna gol e si fa parare un colpo di testa a botta sicura dal portiere messicano Ochoa. Immediatamente esplodono gli archivi video: incredibile, il colpo è uguale a quello di Pelè contro Gordon Banks in Brasile-Inghilterra del 1970, «la parata del secolo». Nella parte di Gordon Banks un portiere senza squadra (Ochoa), licenziato dall’Ajaccio retrocesso in serie b francese.

Si può giocare a calcio nel dominio del puro spettacolo, fuori dalla Storia? No che non si può. Tutti i processi di gentrificazione hanno bisogno di una versione edulcorata della tradizione, kitsch e accessibile a tutti, moltiplicata dalla potenza archivistica della Rete e sfruttata dal marketing. Alla televisione, ore e ore di rievocazione romantica dei Mondiali passati. Magliette delle squadre «ispirate» ai segni di passate grandezze. Deliri da archistar per stadi nuovissimi su terreni addirittura mitologici, come il vecchio Maracanà. In un’intervista a Liberation l’attivista brasiliana Cecilia Allridge attacca: «La Coppa del Mondo è un avvenimento che permette alle autorità di giustificare un processo di ristrutturazione della città che espelle i poveri e sfrutta i lavoratori. È un processo fisico e ideologico. Basta venditori ambulanti fuori dallo stadio, aumento dei prezzi degli affitti, speculazioni nei quartieri, prezzi proibitivi dei biglietti, sfruttamento sessuale ecc».

Non si dimenticherà come questo Mondiale è iniziato, con le manifestazioni e il «tifo contro» di migliaia di brasiliani in piazza. A che punto è questa battaglia? Il calcio d’inizio, come molti speravano, ha risucchiato tutti di fronte agli schermi della tv? Sugli spalti degli stadi brasiliani, intanto, le telecamere rilanciano l’immagine di un pubblico di classi medie globalizzate di tutto il mondo, capace di affrontare i prezzi della trasferta, rivestito con le magliette (originali) della propria squadra, che canta con trasporto l’inno nazionale si riprende con gli smartphone. La spettacolarizzazione è compiuta? I segni dell’economia e il marketing sostituiscono definitivamente il valore politico e collettivo del calcio, espulso dallo stadio e dai suoi circondari.

E tuttavia la performance di alcune nazionali è ancora attraversata dal fremito di una qualche contemporaneità: alla vittoria annunciata del Brasile è appeso il futuro di Dilma Santos alle prossime presidenziali; i moderati in Iran fanno il tifo per la spedizione del Team e-Melli (e in Nigeria intanto la passione per il calcio è bersaglio di gruppi estremisti islamici); per la Russia, nazione che ospiterà i prossimi Mondiali, il corto circuito tra Putin e l’arrugginito sergente di ferro Fabio Capello già promette malissimo. Strappi nella tela, nel bene e nel male.