Hossam Bahgat non ha potuto ritirare il premio giornalistico Anna Politkovskaja con le sue mani. A Ferrara, al festival di Internazionale, non è andato: nel mirino del regime egiziano, non può lasciare l’Egitto e a fine settembre, sulla base della liberticida legge sulle ong varata nel 2011 e subito adottata dal presidente al-Sisi, si è visto congelare anche il conto bancario.

Direttore di Mada Masr, agenzia indipendente egiziana, ha affidato a Skype il suo messaggio all’Italia e alla famiglia di Giulio Regeni, trovato senza vita esattamente sette mesi fa sulla strada tra Il Cairo e Alessandria: «Vi ringrazio per aver trasformato la vostra tragedia familiare in fonte di ispirazione e in una denuncia di altre tragedie che si verificano quotidianamente in Egitto».

Bahgat, quel premio, lo ha ricevuto anche a nome di tanti altri: dal golpe del 2013 la stretta contro la stampa ha raggiunto picchi devastanti con l’apice più visibile il primo maggio quando la polizia ha attaccato la sede del sindacato dei giornalisti.

Decine i giornalisti dietro le sbarre, alcuni da anni come il fotografo Shawkan, molti accusati di proteste non autorizzate, diffusione di notizie false, tentativo di rovesciare il governo. Tutti reati serviti su un piatto d’argento al regime dalla legge anti-terrorismo che lo stesso al-Sisi ha partorito ormai tre anni fa.

Pochi giorni prima che Bahgat venisse insignito del premio dedicato alla giornalista russa Politkovskaja, uccisa a Mosca 10 anni fa, in Egitto tre fotoreporter finivano dietro le sbarre per aver intervistato semplici cittadini per le strade della capitale: il 26 settembre Hamdy Mokhtar, Mohamed Hassan e Osama al-Bishbishi sono stati portati via dalla polizia con l’accusa di incitazione al terrorismo perché, armati di microfono e telecamera, chiedevano opinioni sulla politica economica di al-Sisi, un’austerity che sta colpendo le classi più basse.

Da allora sono detenuti e, denuncia il loro avvocato, sono stati picchiati e sottoposti a elettrochoc. Resteranno in detenzione preventiva per 15 giorni, misura cautelare abusata dal governo perché ripetutamente rinnovata senza limiti, come nel caso del consulente dei Regeni Abdallah e l’avvocato per i diritti umani Malek Adly, rimasti in prigione per 5 mesi in quasi totale isolamento.

Un destino condiviso da circa 30 giornalisti egiziani, la cui detenzione fa del paese il terzo al mondo per reporter in carcere dopo Cina e Turchia. A preoccupare sono le denunce del legale che parlano apertamente di violenze e abusi subiti dai tre in prigione.

Una notizia che fa il paio con l’ultimo rapporto pubblicato dal Nadeem Center, ong che da oltre 20 anni documenta abusi e torture di Stato: solo a settembre è stato possibile documentare 52 casi di violenze da parte degli apparati alla sicurezza di al-Sisi, tra cui torture, negligenza medica, decessi in carcere, omicidi extragiudiziali. A questi si aggiungono 113 sparizioni forzate. Numeri da campagna di repressione di massa.