Lo stop alle trivellazioni sull’Atlantico, l’astensione sulla risoluzione Onu contro le colonie israeliane, la cacciata di 35 diplomatici russi. E ora questo: una festa d’addio col botto che fa sfigurare quella (praticamente vuota) di inaugurazione del presidente eletto Trump.

Barack Obama sembra non perdere occasione per far innervosire il tycoon che lo sostituirà alla Casa Bianca. Dopo una lunga lista di decisioni politiche prese, troppo in extremis, che Trump dovrà affrontare dal 20 gennaio, digerendole o stravolgendole, l’ultima è il farewell party che ieri ha illuminato i saloni della residenza presidenziale a Washington.

Fino a ieri pomeriggio aleggiava il mistero sulla lista delle celebrità invitate, scartabellata da quotidiani e riviste di costume. A salutare la famiglia Obama – che in un’intervista a People, il mese scorso, aveva parlato dell’intenzione di organizzare un ultimo party – sarebbero, però, andati in tanti, nomi noti dello star system mondiale, registi, attori, cantanti che negli ultimi otto anni hanno sostenuto le due campagne presidenziali di Obama e che oggi gli tributano un amaro saluto in vista del successore.

«Pronto a volare 21 ore verso DC per dire addio al più grande presidente della storia americana», scriveva su Twitter il rapper di Chicago Lil Chano from 79th. Stella tra un gran mucchio di stelle: Samuel L. Jackson, Oprah Winfrey e David Letterman, Stevie Wonder e Paul McCartnery, George Lucas e J.J. Abrams, Bruce Springsteen e Eddie Vedder, Bradley Cooper, Beyoncé e il marito Jay Z (che avrebbero cantato per Barack e Michelle). Da qui la confisca dei cellulari all’ingresso, una delle poche indiscrezioni che uscivano ieri dalla sicurezza della Casa Bianca.

Al popolo americano Obama parlerà il 10 gennaio a Chicago, con un ultimo messaggio a cui lasciare in dote la propria eredità politica, nella quale tanti avevano sperato nel novembre 2008 e rimasta parzialmente disattesa. Un’immagine oggi più sfocata di allora che era stata riassunta nel copiatissimo slogan «Yes, we can» e nel richiamo al sogno di un mondo più democratico. Obama l’ha ampiamente spesa nei mesi di campagna elettorale per la Clinton, nell’idea che oltre ai risultati politici resti l’importanza di una comunicazione educativa alternativa. Ma senza successo.

E qui interviene a gamba tesa il futuro presidente: se le star mi snobbano, io ripiego sulla gente. Così in un tweet Trump ha provato a non dare importanza all’infruttuosa caccia alle stelle in corso da un mese per la festa di inaugurazione prevista per il 20 gennaio: «Guarda cosa ha fatto la cosiddetta ‘A’ list di celebrità per Hillary, niente. Io voglio la gente». «Questa non è Woodstock», ha aggiunto il direttore delle comunicazioni del comitato inaugurale, Boris Epshteyn.

Al momento gli unici ad aver confermato la propria presenza sono i 360 membri del Mormon Tabernacle Choir (non la cantante Jan Chamberlin che ha mollato il coro per protesta) e la finalista 16enne del programma tv American Idol, Jackie Evancho. Mal di pancia anche all’interno del Radio City Rockettes, storico corpo di ballo che dovrebbe esibirsi ma che teme di danneggiare la propria immagine mettendola a disposizione di un modello di intolleranza. Non vogliono ballare ma sarebbero contrattualmente obbligati.

La cantante Rebecca Ferguson, chiamata ad esibirsi per Trump, ha dato la disponibilità. Ad una condizione, però: cantare Strange Fruits, inno contro il razzismo e il linciaggio dei cittadini afroamericani, per la prima volta portato sulla scena alla fine degli anni ’30 da Billie Holiday. Un pugno allo stomaco per la xenofobia che il tycoon incarna: più che un endorsement, la Ferguson porterebbe sul palco una sfida.

E nei giorni scorsi è arrivato il «no, grazie» del giovane trio italiano Il Volo, molto noto negli Stati Uniti: hanno rifiutato, dicono, perché «non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti».