«Lo so, non abbiamo ancora frantumato quel soffitto così alto e così duro. Ma un giorno qualcuno lo farà -speriamo il più presto possibile». Nel discorso in cui ha ufficialmente riconosciuto la sua sconfitta, Hillary Clinton ha ritagliato uno spazio particolare per le donne («nulla mi ha resa più orgogliosa di essere il vostro campione»; «e alle bambine che stanno guardando: non dubitate mai il vostro valore, il vostro potere e il vostro diritto all’ opportunità di perseguire e coronare i vostri sogni»).

Anche se Clinton, durante la campagna, aveva inizialmente resistito a battere troppo sul tasto della «prima donna alla Casa bianca», la sua vittoria avrebbe ovviamente avuto quel valore simbolico. Non a caso, a Rochester, al nord dello stato di New York, fin dalla mattina presto di martedì, centinaia di persone si erano messe in fila davanti alla tomba dell’eroina del suffragio universale, Susan B. Anthony, la sua lapide progressivamente coperta di adesivi che dicevano «ho votato».

Anche nell’antro enorme e cavernoso del Javits Center dove, in uno slancio di mal riposto ottimismo (è uno degli spazi chiusi più grossi di New York), era stata prevista la festa d’incoronazione di Hillary, le donne erano tantissime, giovani in particolare, il volto deformato da un’incredula smorfia di dolore, mano a mano che la notte elettorale andava avanti.

A Times Square, intorno a mezzanotte, quando dagli schermi luminosi le notizie cominciavano a diventare veramente preoccupanti, alcune piangevano.

«Ho portato una ragazza gratis fino a Brooklyn, perché non aveva soldi ma voleva arrivare in tempo per votare», mi ha detto un taxista arabo che non credeva alle notizie che arrivavano dal suo i-Phone, sintonizzato su un canale radio («No. Not that guy – non quel tipo», ripeteva scuotendo la testa).

Come prevedibile, la maggioranza delle donne americane ha votato per Hillary (54% contro 42%, secondo gli exit polls). Quello che era meno prevedibile è che la forbice non fosse più ampia – infatti, non molto più ampia di quella tra le donne che hanno votato Obama e quelle che hanno votato Romney nel 2012.

L’esperienza con Berlusconi avrebbe dovuto allertarci del rischio che «lo scandalo sessuale» scoppiato con l’arrivo dell’ormai mitica registrazione dello scambio tra Trump e Billy Bush («you grab them by the pussy») potesse turbare più gli opinionisti e i residenti delle due coste che gli abitanti della flyover zone. Che evidentemente hanno considerato le volgari spacconate di Trump, e le accuse di molestia sessuale rivoltegli da parecchie donne, dei peccadillos su cui si poteva passare sopra.

Anche lo spettro di una Corte suprema che mette fuori legge l’aborto o blocca il cammino verso la parità tra sessi sul posto di lavoro non è servita a spaventarle di più.

In un battibecco di mesi fa, che ha contrapposto, da un lato, la femminista storica Gloria Steinmen e l’ex segretario di stato Madeleine Albright e dall’altro alcune femministe millenials, era emerso che – giustamente – le nuove generazioni non si sarebbero sentite in dovere di votare Hillary Clinton solo perché era una donna.

Alla fine, le donne giovani, quelle delle minoranze, e quelle con un titolo di studi, si sono schierate in massa per lei. Molte altre no. E si potrebbe dire che le identity politics che hanno dominato gran parte dell’attività e del discorso politico nell’America degli ultimi anni, nel contesto queste elezioni siano state anche un boomerang: mobilitando il voto nei termini della lotta di classe, il messaggio razzista e discriminatorio di un narcisista miliardario è risultato più unificante, «inclusivo» di quello di Clinton. Un paradosso.

Ma, se nel 2016 è più che legittimo rivendicare il diritto di scegliere un candidato aldilà del suo gender, quanto il fatto che Hillary Clinton sia una donna abbia pesato sulla sua sconfitta sarà una cosa di cui si discuterà nelle prossime settimane, e nei prossimi anni.

A questa domanda, chiunque abbia seguito queste elezioni, senza sposare automaticamente l’ignobile atteggiamento di superiorità morale con cui una vasta porzione dell’establishment mediatico, di destra e di sinistra (Clinton è stata descritta anche sulle pagine di questo giornale come «una signora anziana esovrappeso») sa cosa rispondere.

In un bel Op-Ed uscito sul New York Times due settimane fa, Susan Faludi, ci ha ricordato che la demonizzazione di Hillary Clinton non è nata con il suo appoggio per la guerra in Iraq, Bengasi, con il falso scandalo delle mail o i discorsi pagati da Goldman Sachs, bensì venticinque anni fa, con il suo arrivo alla Casa bianca. «Uno dei misteri del 2016 è l’intensità con cui Clinton è detestata. Non solo razionalmente, ma visceralmente, instintivamente», ha scritto Faludi.

Per capire quel mistero, bisogna capire il significato di Clinton nella storia politica americana. «Non me ne starò a casa a cuocere biscotti» aveva detto Hillary, alla vigilia dell’elezione di suo marito.

La vittoria di Trump – e del suo orribile retaggio anni novanta fatto dei Rudy Giuliani e dei New Gingrich – oggi spedisce Hillary a cuocere biscotti a Chappaqua. In questo senso, il voto di martedì è non solo una sconfitta per l’America. Lo è in particolare per le donne.