Chi sono i minori non accompagnati, provenienti dall’Africa subsahariana, che sbarcano sulle nostre coste, dopo aver attraversato il Mediterraneo in condizioni spaventose? Perché lasciano aree che non sono necessariamente preda di guerre sanguinose o vittime di crisi economiche insostenibili?

Tenteremo di rispondere appoggiandoci sul caso del Mali e, in particolare, su quello di una delle sue etnie più note, i Dogon. Il territorio di questa popolazione si situa nell’est del paese, in prossimità della regione dell’Azawad, di recente turbata da un conflitto in cui sono precipitate le pretese autonomiste dei tuareg, le incursioni delle milizie jihadiste e l’intervento militare francese con l’operazione Servant.

Proprio tale situazione ha bloccato il flusso di turisti che, in passato, si recavano nel Mali, e ha posto un freno allo sviluppo. La disoccupazione è dunque alta e le prospettive di ripresa aleatorie. Ma non sono questi i fattori che più giocano sul desiderio dei giovani di partire. È piuttosto il quadro socioculturale che deve essere analizzato, per comprendere le ragioni dell’esodo.

La costruzione della persona

Una premessa: nonostante il processo di modernizzazione in atto, sarebbe scorretto, per tante comunità africane, come i dogon, parlare di un abbandono degli stili di vita tradizionali. Adeguati alle esigenze di oggi, questi continuano, infatti, a dettare i ritmi dell’esistenza individuale e collettiva, come dimostra l’ambito dell’educazione.

Ricordiamo inoltre che, se in teoria tutti i bambini maliani sono tenuti a frequentare la scuola francofona, l’accesso di massa all’istruzione rimane un miraggio e il tasso di scolarizzazione è fermo al 52,7%.

A molti ragazzi, e il Pays Dogon non rappresenta l’eccezione, il diritto all’insegnamento gratuito, laico e di qualità appare una nozione vuota di senso. Le loro famiglie ricorrono perciò ad altre strade, che vanno dall’istruzione privata (negli istituti parificati o nelle médersas che offrono un cursus scolastico e religioso), alle scuole rurali (incentrate sull’alfabetizzazione in lingue locali, accompagnata da un avviamento professionale) e, infine, alle scuole coraniche, aperte ai più poveri.

Inoltre, qui come altrove, l’educazione non passa, in via esclusiva, per le realtà scolastiche o affini, ma è l’espressione di un patrimonio complesso di conoscenze e costumi, che viene trasmesso alle nuove generazioni in ambito familiare e comunitario.

In tale prospettiva, la formazione dei giovani si apparenta al concetto di «costruzione della persona» e tale nozione rimanda a livelli multipli, cioè a un processo dinamico. In riferimento al bagaglio di saperi elaborato dalle culture africane, il celebre studioso Amadou Hampaté Bâ sostiene che la persona è da loro concepita come un seme che germina a partire da un capitale iniziale, maturando col tempo, in funzione dei terreni e delle circostanze.

È dunque su un insieme di fattori che si modella l’educazione impartita ai più piccoli, e questi elementi riflettono l’ambiente che li veicola. L’esempio dei riti d’iniziazione lo illustra con chiarezza.

Nei villaggi dogon, il perpetuarsi di pratiche ancestrali non sembra urtarsi con l’adesione formale della maggior parte della gente all’islam. Le moschee e le scuole coraniche, disseminate nella zona, non frenano le aspettative con cui le famiglie affidano i figli ai maestri delle procedure rituali, di solito appartenenti alla casta dei fabbri.

Con regolarità, vengono organizzate complesse cerimonie di circoncisione, per introdurre i ragazzi, di 6-9 anni, all’età adulta. Superando varie tappe, i bambini si avvicinano agli eventi connessi alla storica migrazione che ha condotto i dogon sul territorio della falesia. Il momento clou dell’iniziazione corrisponde, ovvio, all’ablazione del prepuzio, effettuata in modo rudimentale, con un coltello. Seduti in cerchio su delle pietre, in un luogo ad alcune centinaia di metri dall’abitato, i maschietti, pantaloncini abbassati, attendono il proprio turno. Il sangue che si apprestano a versare, li assimila a esseri sacrificali, a creature da immolare.

Nel corso del rito, l’attitudine dei bambini deve rimanere coraggiosa, nemmeno un grido può sfuggire dalle loro labbra e sono tenuti a un comportamento reverenziale nei confronti degli adulti che li sorvegliano. La cauterizzazione della ferita avviene con l’uso di ceneri calde, accompagnate dal ricorso a pomate a base vegetale.

Il cerimoniale non si limita però a questo momento, poiché si prolunga per tre settimane. La volontà d’inculcare nei ragazzi il senso del coraggio, in grado di far loro superare sofferenza e fatica, contraddistingue il ciclo iniziatico. Per tutto il periodo, i bambini non dormono a casa, ma in una grotta sprovvista di qualsiasi conforto; il loro sonno si limita a 4-5 ore per notte, in quanto li si costringe a seguire sedute interminabili, in cui vengono narrati alcuni miti d’origine del popolo dogon e li si sollecita a memorizzare formule particolari, pena punizioni severe.

Solidarietà, unica consolazione

Ogni istante della giornata, e parte della notte, è dedicato a un’attività peculiare, che corrisponde ad un esercizio fisico intenso (corsa, lancio di pietre, simulazione della caccia in boscaglia). I ragazzi devono muoversi di continuo, non si riposano mai e sono sottoposti al ritmo incessante di tamburi e di vari strumenti musicali, accompagnati, la sera, da canti che risuonano in maniera inquietante nell’oscurità. Unica consolazione, per questi ragazzi spauriti, la solidarietà che si crea fra loro, fronte alla comune sofferenza; ciò li renderà compagni di «classe di età» pe la vita intera.

Ma in cosa consiste l’ammaestramento offerto? Il nocciolo dei discorsi concerne la salvaguardia della memoria del passato e la trasmissione di elementi della cosmogonia locale per rendere i giovani consapevoli, da un lato, del loro ruolo di futuri uomini responsabili, dall’altro, per inserirli a pieno titolo nella società. Una nota domina: l’apprendimento passa per il dolore, poiché l’esistenza stessa si snoda nelle difficoltà, nella sottomissione dei cadetti e nel sacrificio di sé, che bisogna accettare con pazienza.

Indirizzato alle divinità o agli antenati mitici (e simbolizzato dalla circoncisione), il sacrificio svolge una funzione cruciale nelle cerimonie, poiché mette in movimento l’insieme delle “cose sacre” in quanto, se si dà qualcosa, si otterrà altro in cambio. Insomma, il percorso iniziatico, attraverso il sacrificio, stabilisce un contratto fra il singolo, il gruppo e il mondo sovrannaturale, ma il patto può avvenire unicamente tramite il supplizio. Più il tormento è profondo, più la ricompensa attesa è maggiore.

L’educazione tradizionale – dogon, ma non solo – mette i giovani di fronte alla crudezza dell’esistenza, ai rischi che comporta il conflitto in seno alla collettività e, di conseguenza, all’obbligo di sottostare, senza discussioni, alle norme stabilite, sebbene penose. Qualsiasi cambiamento radicale appare qui rischioso.

All’insegna dell’obbedienza cieca

Ritroviamo tale mentalità nell’educazione impartita dalla religione musulmana e, più esattamente, dalle scuole coraniche informali, dove la trasmissione del sapere e la formazione dei ragazzi avvengono all’insegna dell’obbedienza cieca, del timore e, persino, dello sfruttamento dei piccoli, costretti a mendicare nelle strade. Le famiglie relegano i figli in tenera età (3-4 anni) a personaggi che si qualificano quali marabouts, insegnanti di scuola coranica (magari senza averne le competenze). Questi difendono la durezza del loro modello educativo insistendo sul fatto che non si acquisisce la conoscenza senza sacrificio e che ciò forgia il carattere dei giovani.

Certo, non tutte le scuole coraniche si basano su tale modello, ma il fenomeno degli abusi nei confronti dei talibés (allievi) è diffusissimo, nell’intera area sahelo-sahariana. A mezza voce, si sussurra persino di violenze sessuali e crimini rituali. Alcuni marabouts fabbricherebbero – con organi del corpo umano – dei feticci, richiesti da una clientela accecata da una concezione distorta della religione.

Per il loro statuto di bambini lontani dalle famiglie e di studenti del Corano, i talibés si collocano in una situazione che li rende una “preda di prima scelta” agli occhi di una tale e aberrante logica.

Tornando ora alle domande che ci siamo posti in apertura dell’articolo, circa le cause della fuga di un numero impressionante di minori non accompagnati dall’Africa. Anziché insistere troppo su problematiche politico-economiche, suggeriamo di puntare il dito sulla rigidità di modelli educativi marcati dalla sofferenza e sull’anacronismo di determinate regole societali, fondate sull’assoggettamento dei giovani agli adulti. Per sottrarsi a tale quadro soffocante, la via dell’esilio appare a taluni come la sola scappatoia possibile, a dispetto dei problemi da superare e delle incognite della migrazione.

D’altronde, l’abitudine al sacrificio sembra predisporre i ragazzi, memori dell’esodo dei loro avi, a sormontare qualsiasi ostacolo. Come condannarli, sapendo cosa lasciano?