Solidarietà e ostilità, accoglienza e chiusura: la Germania di questi giorni ha molte facce. I profughi che giungono a Monaco di Baviera (circa 20mila nel fine settimana) trovano ad attenderli volontari e addetti delle amministrazioni pronti a dare loro immediato aiuto e conforto.

L’organizzazione funziona bene e a pieno ritmo, e dalla capitale bavarese le persone vengono smistate verso nord, in direzione Dresda, Erfurt (capitale della Turingia) ed Eisenhüttenstadt, cittadina del Brandeburgo al confine con la Polonia. Nei prossimi giorni saranno pronti altri tre grossi centri di raccolta delle persone in arrivo: il primo sicuramente a Lipsia, che funzionerà per l’intera Germania orientale, gli altri in siti ancora da definire nel nord e nell’ovest del Paese.

Le proteste razziste sembrano essersi per il momento sopite, ma gli episodi preoccupanti non mancano. La cronaca della notte fra domenica e lunedì ne riporta due: è andato a fuoco per cause sicuramente dolose un edificio destinato a ospitare i richiedenti asilo a Ebeleben, piccolo comune della Turingia, e si sospetta che un incendio divampato nel centro di accoglienza di Rottenburg (nel Land meridionale del Baden-Württemberg), con un bilancio di cinque feriti, possa essere stato provocato da un’azione esterna.

Luci e ombre anche sul piano politico. Il vertice fra i leader della grosse Koalition ha partorito un pacchetto di misure per affrontare quella che il vicecancelliere e segretario del partito socialdemocratico (Spd), Sigmar Gabriel, ha definito «la maggiore sfida che la Germania si trova di fronte dai tempi della riunificazione».
Nuovi stanziamenti, innanzitutto: il governo federale investirà direttamente 3 miliardi nell’emergenza-profughi e la stessa cifra verrà destinata a Länder e comuni. In breve tempo saranno approntati altri 150mila posti-letto in strutture di prima accoglienza adatte al rigido inverno tedesco.

Aumenterà il personale delle pubbliche amministrazioni che, a vario titolo, hanno a che fare con l’afflusso dei migranti: dalla polizia federale agli impiegati dei centri per l’impiego, dai mediatori culturali ai funzionari dell’Agenzia federale per l’immigrazione.

Previsti anche il potenziamento del servizio civile volontario e agevolazioni per la costruzione di nuove case popolari.

C’è però un’altra faccia della medaglia. Quella che sta maggiormente a cuore soprattutto all’Unione cristiano-sociale (Csu), partito-fratello della Cdu della cancelliera Angela Merkel nella ricca Baviera. Per «eliminare incentivi sbagliati» all’immigrazione, il governo ha introdotto alcune significative modifiche nel trattamento che era riservato fino ad ora ai richiedenti asilo.

Ai migranti in attesa di sapere il loro destino non verrà più elargita una somma di denaro per le spese ordinarie, ma saranno dati direttamente i beni da consumare (o in alternativa buoni validi solo per determinati prodotti).

E per chi proviene dagli stati dei Balcani occidentali, le speranze di restare in Germania sono state quasi azzerate: Kosovo, Albania e Montenegro saranno riconosciuti come «Paesi sicuri» (come già accaduto a Bosnia, Macedonia e Serbia lo scorso anno), e quindi, in base alla legge tedesca, i loro cittadini perderanno il diritto di ottenere asilo. E oltre ai cambiamenti alla legislazione nazionale, Merkel e Gabriel hanno messo in chiaro la loro intenzione a proposito delle norme europee: «il regolamento di Dublino va mantenuto, la nostra accoglienza di questi giorni dei profughi dall’Ungheria resterà un’eccezione».

È facile capire, quindi, perché le opposizioni si dichiarino insoddisfatte. Per il co-segretario della Linke, Bernd Riexinger, al vertice di maggioranza ha prevalso la linea della Csu. I capigruppo in pectore Sahra Wagenknecht e Dietmar Bartsch denunciano il mancato contrasto delle cause delle migrazioni forzate: le guerre e le azioni militari della Nato, gli scarsi investimenti nella cooperazione internazionale a fronte degli enormi profitti che derivano invece dalla vendita di armi – la Germania ne è la terza esportatrice al mondo.
E la co-segretaria dei Verdi, Simone Peter, ritiene che «una vera cultura dell’accoglienza abbia caratteristiche molto diverse dalla politica del governo fatta di vessazioni»: nel mirino della leader ecologista è sia l’aumento dei Paesi da considerare sicuri, sia la sostituzione del denaro con i beni, una misura giudicata non rispettosa della dignità delle persone.