Adesso per il Labour party il “leave” per o contro il quale lottare è quello di Jeremy Corbyn. Il risultato del referendum non si è limitato a falciare il premierato di David Cameron, ha esteso il suo caos destabilizzante dentro al principale partito d’opposizione, squassato da un’endemica volatilità interna. Mentre scriviamo, è in discussione una mozione di sfiducia presentata dalle deputate Hodges e Coffs contro la leadership di Corbyn, accusato formalmente di non essere un leader, di non aver fatto una campagna sufficientemente entusiasta a favore dello sconfitto remain, di non essere ora in grado di condurre per il partito le rinegoziazioni dei trattati commerciali di cui si compone la clausola 50 dell’uscita dall’Unione europea e – accusa più grave, già ricorrente ma diventata assordante ora che c’è una concreta possibilità di elezioni anticipate in autunno -, di non essere in grado di portare alla vittoria il partito.

Corbyn non avrebbe comunque avuto vita facile in una compagine divisa fra il realismo politico dei suoi deputati e l’ansia di cambiamento della base, che attraverso le primarie appena nove mesi fa lo aveva proiettato in cima alla leadership con un blindato 60 per cento dei voti. Ma l’ormai apparentemente ineluttabile uscita del paese dall’Ue ha fatto precipitare i programmi di un golpe che prima era probabilmente solo dilazionato, creando un effetto domino di dimissioni. E una sessantina di deputati l’ha invitato a farsi da parte, non considerandolo un «primo ministro credibile».

È un drammatico crollo quello nelle file laburiste: di unità, di fiducia nelle proprie possibilità e, sembrerebbe, di lucidità politica. Dopo aver lui stesso allontanato il ministro ombra degli esteri Hilary Benn (sostituito con Emily Thornberry), Corbyn si è visto perdere una pletora di frontbenchers, fra cui alleati chiave come il ministro ombra per il commercio Angela Eagle il ministro della sanità Heidi Alexander (rimpiazzata con la fedelissima Diane Abbott), quello dell’istruzione Lucy Powell, e quello della giustizia Lord Falconer. Parte di loro era già stata rimpiazzata lunedì mattina ma senza che si arrestasse l’emorragia che è arrivata finora a 29 defezioni. Che non annoverano soltanto i soliti noti centristi blairiani ma anche altre figure, come Angela Eagle, che avevano finora garantito al segretario un appoggio condizionato. A rincarare la dose e il leader della campagna ufficiale del partito per il remain, Labour In, Alan Johnson, che ha accusato Corbyn di aver minato l’efficacia della campagna.

Il vice-leader Tom Watson, anche lui eletto alle primarie con il sostegno, come Corbyn, dei sindacati, non si è unito alla fronda ma gli ha comunicato che non aveva più la fiducia dei suoi deputati. È abbastanza chiaro che ora ci sarà un’altra elezione del segretario, alla quale Corbyn ha già detto che si ripresenterà. E che forse rivincerà ampiamente, sempre che gli equilibri che hanno portato alla sua trionfale quanto storica elezione meno di un anno fa siano ancora in atto. In tal caso si profilerebbe come abbastanza plausibile una scissione del partito.

La tensione spasmodica nelle file laburiste è apparsa evidente quando lo stesso Corbyn, durante il dibattito in aula lunedì pomeriggio, ha criticato la fronda di cui è oggetto in mezzo a un coro di «dimissioni, dimissioni». È forse la prima volta che accade che un leader si pronunci contro i propri deputati tra gli scranni di Westminster. Corbyn ha difeso la propria performance come guida della campagna remain ricordando che i 2/3 dell’elettorato labour ha votato per restare e ha addossato al governo la responsabilità del massiccio voto delle comunità working class del paese, fortemente penalizzate dai tagli al welfare imposti dalla maggioranza e auspicando il ritorno a una politica di investimenti.

Ma ormai il veleno scorre a fiumi. Un altro dimissionario, Chris Bryant, ha insinuato che Corbyn abbia segretamente votato leave, e non si perdona al segretario – che non ha mai fatto mistero di essere un sostenitore “critico” della permanenza – il fatto di non aver mai fatto accenno al problema dell’immigrazione, lasciando così in mano alla truculenza della retorica Ukip il monopolio dello scontento nelle aree storiche dell’elettorato laburista. Ora la crisi strutturale innescata dall’elezione di un segretario portatore di un’idealità politica da tempo rottamata dal suo partito è ufficialmente precipitata. Ed è lotta dura fra i rappresentanti parlamentari e il proprio elettorato sull’espressione del leader di entrambi, proprio mentre il partito, nonostante i propri drammi interni, si trova tra le mani la rara e fortuita possibilità di attaccare duramente quei Tories che per stridule beghe interne hanno cambiato, probabilmente in peggio, il futuro di tutto il paese.