L’ultima volta che sono venuto a Tor Sapienza è stato per sbaglio pochi mesi fa. Ero diretto alla prima comunione di Maria, figlia di un caro amico, alla Rustica, quartiere cuscinetto tra Tor Sapienza e l’autostrada Roma-L’Aquila. Distrazione al telefono e mi ritrovo nell’anello di via Morandi. Faccio il giro degli enormi palazzi un paio di volte, senza trovare la via d’uscita, e come succede nei film mi ritrovo nel passato, quando con un gruppo di pazzi all’inizio dei ’90 animammo l’estate per i bimbi proprio su questa via: giostrine, clown, musica, proiezioni. «Meno male che conosco le strade» dico a mia figlia seduta accanto per tranquillizzarla. Esco dall’anello e raggiungo facilmente via Longoni, dritto per la Rustica. Ma mi ritrovo in un posto sconosciuto, con decine di trans in pieno giorno che colorano la via, mia figlia è immersa nel suoi Ipod e non mi fa domande…

Ho vissuto 25 anni a ridosso di questa zona di Roma, a Pietralata, nella parte opposta dell’autostrada, ma quando l’altra notte le tv hanno trasmesso l’ormai famigerato raid contro il centro di accoglienza, mi sono svegliato vagando per il quartiere con la testa. E al mattino ho twittato la mia angoscia: #TorSapienza torna alle cronache. Il quartiere abbandonato da tutte le amministrazioni, la “discarica umana”. Allora? Aspettiamo il #morto?

Sarà per questo quasi inspiegabile attaccamento a un quartiere che ho frequentato per anni, che ora ci cammino in mezzo, non me la sono sentita di risolvere il mio personale rapporto con questo mondo semplicemente con un twitt. Anche perché nella semplificazione giornalistica mi sono ritrovato a dire: «perché quei centri non li mettono ai Parioli?». Che come provocazione magari funziona, ma non è esattamente il mio pensiero. Le chiacchiere stanno a zero, questa è una zona sotto assedio: polizia ce n’è un bel po’; tanti capannelli di persone; grida sconclusionate di donna che dice «Basta!» a ripetizione. Non la vedo, ma le sue grida interpretano questa atmosfera alla perfezione. Ora che questo luogo è diventato tristemente famoso nel mondo per il raid contro la cooperativa sociale «Un sorriso», tutto è più difficile, tutto è maledettamente scivoloso. Qui le ragioni e i torti si mescolano fino a essere irriconoscibili. L’unica cosa certa: troppi problemi che si sovrappongono.

E’ legittimo chiedersi come si sia mai potuto pensare di innestare in un quartiere come questo l’ennesima forma di disagio sociale. Ma chi le pensa queste cose? Chi si prende certe responsabilità? Magari, invece, chi ha deciso questa cosa avrà avuto le sue ragioni, l’edilizia pubblica viene utilizzata per scopi sociali e magari ai Parioli non ci sono case pubbliche… Le strade ad anello sono senza scampo e gira gira mi ritrovo davanti al centro di accoglienza «Un sorriso». C’è la polizia, ci sono i militanti dei movimenti che proteggono l’uscio. Dall’altra parte della strada musi lunghi che dicono no. Passo in mezzo come un fantasma. Nessuno si accorge di me. Provo un brivido freddo, un serpentello mi scorre lungo la spina dorsale: oltre quelle vetrate ci sono ragazzi che vengono da zone di guerra vere, dove la vita vale meno di zero. E sono stati ripescati in mare come tonni. Per loro quei musi lunghi sono l’Italia che non li vuole. E io sono italiano, sono coinvolto. Ma se la mia famiglia fosse lassù, dietro quei panni stesi al terzo piano? Asserragliata in casa per paura?

Qualche mese fa rimasi imbottigliato nel traffico in via Collatina, a un chilometro da qui. Tentando di capire dalla radio cosa stesse succedendo, scoprii che era in corso una protesta dei cittadini del quartiere, sentii quel gran pezzo di sindaco che fu Alemanno chiedere isterico: «Marino dov’è?». Si era presentato alla manifestazione e le televisioni locali non mancarono di immortalarlo in mezzo alle mamme con le carrozzine e le maschere contro la diossina mentre diceva nevroticamente: «Marino dov’è?». La “destra sociale”, quella che sa vincere le elezioni cavalcando il disagio popolare senza peli sullo stomaco, e che quando governa demolisce pezzo per pezzo il welfare, Alemanno, era li in mezzo alla gente del quartiere. Le mamme e i bimbi protestavano per oggettive condizioni inaccettabili di vita. Non ricordo altri politici di rango presenti. Con disastri di questo tipo, ipermediatizzati, come il terribile stupro e l’uccisione della signora Reggiani, si vincono e si perdono le elezioni o peggio si inaugurano cicli politici. I cittadini protestavano per i roghi tossici su via Salviati, appiccati dai rom. Ho visto spesso il fumo venire su passando dall’autostrada. A via Salviati c’è un campo nomadi dove si dice risiedano migliaia di persone anziché le 300 previste. Recentemente è stato fatto uno sgombero molto contestato del campo, ma un gran numero di Rom pare sia ancora li. A questa presenza difficile si aggiungono alcuni centri di accoglienza in zona, uno di questi è quello di Via Morandi preso di mira l’altra notte, e me lo sono appena lasciato alle spalle. Mi fermo per scrivere, mi nascondo come un ladro dietro un pilone di cemento.

Giro ancora in tondo e passo davanti alla sede di Antropos. Una associazione capace di sviluppare una quantità di attività sociali incredibile. 13 anni fa vi feci i provini per il mio primo film: «Velocità Massima». Vi trovai il protagonista e alcuni dei ragazzi di Tor Sapienza fecero le comparse nel film. Mi sembra chiuso il centro, non sono nemmeno sicuro di riconoscerlo. Non mi va di parlare con nessuno, tiro dritto.

Bisogna dire che passarci a piedi si capisce molta della rabbia dei cittadini. E’ sporco, ma come fanno i bambini a giocare qui in mezzo? Marciapiedi che improvvisamente finiscono nel nulla. Lampioni piantati al centro degli scivoli per disabili. Monnezza. Penso che se il posto in cui stai fa schifo, prima di prendertela con l’ultimo dei rifugiati, dovresti prendertela con te stesso che ci abiti e fai poco o nulla per migliorare la situazione, e magari pisci anche tu in quel cespuglio dove al mattino va a giocare a nascondino tuo figlio. Mi do ragione da solo, ovviamente, come tutti i benpensanti, ma c’è sempre il piccolo dettaglio che io non abito qui. Non abito nemmeno più a Pietralata che rispetto a questo posto è un luccicante quartiere residenziale, e me ne sono andato qualche anno fa perché spesso si fulminavano i lampioni, e passavo le serate buie alla finestra per essere sicuro che la mia compagna parcheggiasse e tornasse a casa senza rotture. Ora sono su un altro pianeta, quasi in centro a San Giovanni.

Pensieri in libertà e mi ritrovo a leggere il nome della strada: via Luigi Nono! Provo un momento di entusiasmo, è un genio della musica del novecento, un uomo impegnato politicamente, autore tra l’altro de «Il canto sospeso» musica lancinante e testi dalle «Lettere dei condannati a morte della resistenza»… solo ora mi rendo conto che il teatro di questo dramma sociale è una via intitolata al più isolato e mite tra i pittori italiani: Giorgio Morandi. Me lo ripeto ad alta voce, perché il nome suona strano a guardami attorno, lui è stato uno dei geni della pittura del XX secolo, con le immortali nature morte dipinte nella sua stanzetta bolognese. Qui le strade portano nomi di grandi personalità dell’arte contemporanea, involontariamente a suggellare la misera sconfitta di una idea di civiltà e di politica appiccicata con lo sputo sulla pelle di una società che sotto un velo sottile di retorica fard nasconde purulenze mai sanate. Ecco.

A sprazzi mi andrebbe di parlare con qualcuno, anche per uscire da questo soliloquio, ma mi freno, perché i media hanno già vampirizzato le peggiori nefandezze e irripetibili minacce che «i residenti» indirizzano ai rifugiati. Se ne potrebbe fare un catalogo che non sfigurerebbe nel dizionario del perfetto fascioleghista. Infatti si parla di «infiltrati» di gruppi politici di estrema destra o cose simili. Infiltrati? Certamente gente che getta benzina sul fuoco ce n’è. Credo che i raid razzisti vadano non solo criticati a parole, ma fermati senza tentennamenti, perché sono un crimine contro l’umanità, e mai come in questi casi va invocato lo stato di diritto (se esiste). Va bene tutto, ma in questa vicenda c’è un ma: MA perché qui vengono concentrate tutte le contraddizioni del mondo, senza risolverne nemmeno una?

Qui, nelle case dell’Ater (Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale), trenta e più anni fa arrivarono migliaia di persone cariche di storie difficili, vi furono concentrate situazioni spesso ai limiti. Quando arrivarono «questi qui» delle case popolari che ora fanno i raid contro i rifugiati, gli abitanti delle borgate limitrofe, come la Rustica, protestarono. Lo ricordo con esattezza, perché alla Rustica ci vivono molte persone originarie del paese in cui sono cresciuto, le case se le sono costruite negli anni ‘50 e ’60 con le loro mani, e su quelle case due o tre generazioni hanno buttato tutte le risorse familiari disponibili. Quelle stesse case, abusive e poi sanate, sono diventate un capestro per i loro proprietari a causa di Ici o Tasi varie, ma sono pur sempre case private, «dignitose», non case popolari prese «a sbafo», come si diceva degli inquilini di via Morandi: «Io lavoro, sudo e quelli si prendono la casa a gratis e poi vanno in giro con la mercedes», così si diceva. Ora la ruota gira, e quelli che furono protestati trent’anni fa protestano gli ultimi arrivati, che «mangiano a sbafo con i soldi nostri e buttano nei secchi dell’immondizia il cibo…». E’ un assurdo esperimento psico-sociale quello realizzato in questa assurda periferia, lontana dalle le zone «bene» della città, che si sono sempre sentite al riparo da ogni conseguenza diretta dai casini dei «borgatari». Però, come succede nei film catastrofici, da questo esperimento il virus potrebbe sfuggire e ora lo sappiamo tutti, siamo tutti avvertiti, le molotov contro il centro di accoglienza «Un sorriso» parlano chiaro.

E la politica? Mistero… l’unica cosa evidente è che c’è chi ha molto fiuto per queste situazioni, come Salvini. S’è visto bene a Bologna, è un ragazzo intelligente che piace tanto ai salotti televisivi, ma tanto tanto. Si dice che dreni i voti in libera uscita da Forza Italia, quindi è utile… L’attivismo razzistoide della Lega ha già imposto per venti anni campagne elettorali su «legge e ordine» e contro «lo straniero». Lo ricordiamo tutti, spero, che la Lega nacque a ridosso dell’arrivo degli albanesi sulle coste pugliesi nel 1991? Persino la sinistra «di governo» ha dato il suo bel contributo a quella tendenza con l’invenzione dei Cie.

Fa il suo, Salvini, bisogna dargliene atto: egli fa politica. Ma a parte alcuni «amici» di twitter che danno del fascista agli abitanti di un intero quartiere, e a parte qualche personalità della sinistra non di primissimo piano, cosa fa il resto della politica per sciogliere questo garbuglio?

E senza accorgermene i miei pensieri fluidificati dalla rabbia mi hanno teletrasportato al Lory Bar. Mi prendo il caffè che non è nemmeno accio. Devo ammettere che è la prima volta che provo disagio nella «mia» periferia. Guardo le persone che mi guardano, qui non passo inosservato. Sento dire che sta arrivando o è arrivata la Meloni, che i rifugiati li hanno già trasferiti in parte stamattina. Viktoria! Voglio andare via subito, a me certe «vittorie» danno ai nervi, non vorrei che si rivelassero delle immense débâcle.

Un po’ me lo merito con i miei misterici Ray-ban di essere un «osservato speciale». Uso la tazzina del caffè come scudo, mi proteggo dallo sguardo limpido di una ragazzina bionda seduta sul muretto, giovanissima. Io farei crescere qui mia figlia?

Due anziani discutono degli accadimenti ultimi, uno dei due dice guardando me: «Qua a Tor Sapienza sémo ventimila abitanti ar massimo in tutta l’ottava zona dell’Agropontino, ma come fai tra rifugiati, sbandati e Rom, a mettecene dentro n’antri due o tremila?». Perché l’ha detto a me? La cosa mi brucia. L’altro risponde solo «’nfatti», fumando una sigaretta elettronica. Mentre penso che il vecchio non ha tutti i torti anche se il suo discorso somiglia inevitabilmente a: «Non sono razzista ma…», mi do anche la risposta: «no, non ci farei crescere mia figlia qui»… non ci vivrei nemmeno io, piuttosto me ne andrei da Roma, forse tornerei a Collegiove, dove sono cresciuto, dove mia madre gestisce l’unico bar del paese. Ma improvvisamente mi viene da ridere, non riesco a trattenermi e credo di rischiare una coltellata da un tipo con il giubbottone di pelle nera che mi fissa, come faccio a spiegargli che rido perché a Collegiove, un paese di un centinaio di abitanti, in provincia di Rieti a 1.000 metri d’altezza, da qualche mese ci sono 30 rifugiati nell’albergo chiuso da sempre e aperto per l’occasione? 30 su 100. E come faccio a spiegargli che sono clienti di mia madre, che sono gentilissimi, brave persone con neonati al seguito scappate dalla Siria, e che pagano i loro piccoli debiti, che non la chiamano Gabriella, ma la chiamano MAMMA, esattamente come la chiamo io? E che quando me l’ha detto qualche giorno fa per telefono, mi sono pure un po’ ingelosito? Ma forse il giubbottone nero ha ragione, c’è poco da ridere, almeno qui a Tor Sapienza.