Centinaia di morti in esecuzioni sommarie, migliaia di feriti e mezzo milione di profughi, secondo i dati di un allarmato Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu: è il bilancio di cinque giorni di caos iracheno. Da lunedì il paese è sull’orlo di una spaccatura difficile da sanare. Una frattura territoriale, politica, etnica: a nord i curdi, a ovest i jihadisti, a est e sud – per ora – il governo sciita di Baghdad.

La reazione della Casa Bianca potrebbe essere più vicina del previsto: «Vista la gravità della situazione – ha avvertito ieri il segretario di Stato, John Kerry – il presidente potrebbe prendere decisioni tempestive». Ovvero entro le prossime 24 ore. In mattinata Obama aveva parlato di provvedimenti immediati e minacciato lo Stato Islamico in Iraq e in Siria (Isil) di raid aerei. Di truppe di terra non se ne parla ancora, per adesso Washington dovrebbe optare per attacchi mirati dei droni, sullo stile degli interventi contro Al Qaeda in Yemen.

Ma se Obama e Kerry puntano il dito contro i jihadisti di stanza sia in Iraq che in Siria, stessa sorte – il bombardamento – non toccherà ai miliziani al di là del confine, attivi in territorio siriano. Seppur si tratti esattamente dello stesso gruppo, che con estrema facilità si fa beffe di Baghdad e Damasco e fa passare armi e uomini da una parte all’altra della frontiera, gli Usa puntano un unico target. Anzi, due: l’Isil in Iraq e il governo sciita di Maliki, posto sulla poltrona di premier da Washington e oggi rinnegato: «Il governo iracheno dovrebbe svegliarsi», ha detto Obama alludendo alle politiche di esclusione contro la comunità sunnita, terreno fertile alle sirene qaediste perché gravemente marginalizzata dal potere centrale.

Intanto sul terreno gli islamisti – già padroni di parte della provincia di Anbar, di Baniji e Salah-a-Din, di Mosul e della provincia di Ninawa – hanno assunto ieri il controllo di altre due città, Saadiyah e Jalawla, nella provincia di Diyala, a nord est di Baghdad. Da qui potrebbe prendere il via la marcia verso la capitale, minacciata ieri e facilitata dal radicamento islamista nelle comunità intorno alle montagne Himreen. La presa di Diyala non si è dimostrata complessa per l’abbandono delle postazioni da parte delle forze di sicurezza. Baghdad ha però bombardato la zona, costringendo parte della popolazione a riparare al nord. A sud della capitale, la città sciita di Samarra è stata circondata dall’Isil, ma l’esercito regolare ne mantiene ancora il controllo. A spaventare sono, però, le «prove di califfato» dell’Isil: in alcune zone occupate, i qaedisti hanno reso pubbliche le regole che la popolazione dovrà rispettare. Non bere alcol, non usare droghe, non fumare sigarette e – per le donne – coprirsi totalmente il corpo.

Dove il governo non riesce ad arrivare, appesantito da un esercito in fuga, ad organizzarsi sono le milizie sciite: ieri una delle più importanti figure religiose del paese, l’Ayatollah Ali Sistani, ha emesso una fatwa con cui intende mobilitare la maggioranza sciita: «La responsabilità di lottare è di tutti, non di una setta o di un partito. Chi è in grado di prendere un arma e combattere i terroristi deve arruolarsi volontariamente nelle forze di sicurezza». Una chiamata alle armi che potrebbe ulteriormente infiammare un conflitto già settario e che ha prodotto i primi effetti nella provincia di Diyala, ieri teatro di scontri tra milizie sciite e qaedisti. E dopo l’appello del premier Maliki sarebbero migliaia i civili in fila nel centro di reclutamento di Baghdad.

«Resiste» il Kurdistan iracheno che, mantiene le posizioni grazie all’intervento dei peshmerga, e si allarga abbondantemente verso sud. Ieri ha fermato l’offensiva islamista e assunto il controllo di Kirkuk, zona petrolifera tra le più ricche del paese. La regione autonoma del Kurdistan approfitta apertamente dello sbando dello Stato iracheno, nel tentativo di annettere zone da tempo contese con Baghdad e ottenere sul campo l’indipendenza a cui aspira da decenni. Così sarebbero in ballo accordi sottobanco tra curdi e islamisti per una divisione del territorio. «In molte aree, noi non li disturbiamo e loro non ci disturbano», è stato il commento del generale peshmerga Zibari.

Prova ne sarebbe sia l’ambiguo disinteresse dell’Isil verso le regioni nord del paese (con i pozzi di petrolio più produttivi), sia la vendita realizzata dai curdi iracheni di un cargo di greggio alla compagnia russa Rosneft. Un accordo che calpesta il divieto di Baghdad al Kurdistan iracheno, non autorizzato a vendere greggio nonostante la strana alleanza stretta a fine maggio con Ankara (che mentre fa accordi con Irbil, reprime le spinte autonomiste dei curdi turchi) per l’esportazione di greggio curdo via Turchia. Per Erdogan, l’amicizia con il Kurdistan iracheno è fonte di guadagno economico e anche di sicurezza alla frontiera: una zona cuscinetto che protegga Ankara dal caos iracheno.