Il Gruppo anticorruzione del Consiglio d’Europa boccia ancora una volta l’Italia. Ma il quarto ciclo di valutazioni, dedicato stavolta alle misure di prevenzione della corruzione, riserva una sorpresa. Perché nel mirino dell’organizzazione che riunisce 47 stati (ci sono anche Russia, Israele, Turchia e Azerbaigian) finiscono non solo i partiti e il parlamento, ma anche gli stessi magistrati.
Il Greco (all’interno del quale l’Italia è rappresentata da due magistrati, il direttore generale della giustizia penale del ministero, Raffaele Piccirillo, e il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone) riconosce alcuni passi avanti del nostro paese. Come proprio l’istituzione dell’Anac di Cantone, oltre a un generico aumento delle pene per i reati di corruzione e la prospettiva di «maggiore stabilità e un procedimento legislativo più semplice» in conseguenza delle riforma costituzionale e della nuova legge elettorale: in quest’ultimo caso l’ottimismo è superato dai fatti. Il rapporto infatti non è recentissimo – risale allo scorso ottobre – ma è stato pubblicato solo ieri.

Quanto agli aspetti dolenti, questi riguardano innanzitutto la mancanza di una seria legge sul conflitto di interessi. Una legge in Italia ci sarebbe, approvata tredici anni fa da Berlusconi (la legge Frattini) ma è così blanda da non essere neanche presa in considerazione nelle valutazioni internazionali. Un’altra legge, che introduce un blind trust «all’italiana» e che è stata criticata perché ritenuta anche questa inefficace, è stata approvata solo dalla camera dei deputati, ormai quasi un anno fa. Per quanto il Pd di Renzi l’abbia presentata come «una priorità», è finita nelle sabbie mobili del senato. Non è andata oltre un ciclo di audizioni in commissione, dalle quali è venuto fuori che andrà radicalmente cambiata rispetto al testo approvato in prima lettura. Il Greco raccomanda che l’Italia introduca anche divieti stringenti per la carriera dei parlamentari a fine mandato, mentre elogia l’approvazione di un codice di condotta per i deputati (che vorrebbe venga esteso al senato). Si tratta di una decisione della giunta del regolamento di Montecitorio che qui da noi è passata inosservata. Anche perché si è risolta nella nomina da parte della presidente della camera di un ufficio di dieci deputati che dovrebbe vigilare sui comportamenti etici dei colleghi, senza possibilità di sanzionarli.

La seconda parte del rapporto (52 pagine, in francese e inglese sul sito del Consiglio d’Europa) è dedicata all’amministrazione della giustizia. Per quanto raccomandi al parlamento di riformare la disciplina della prescrizione (ostacolo fin qui insormontabile per il ministro Orlando), si rivolge principalmente ai magistrati. Per criticare la mancanza di «una linea netta di demarcazione» tra l’attività politica e le funzioni giudiziarie. A colpire i membri del Greco è stato il fatto che in Italia per un magistrato sia ancora possibile essere eletto a cariche politiche locali, incluso presidente di regione e sindaco, con l’unico limite che la candidatura sia presentata al di fuori del territorio del distretto di competenza. «Il sistema italiano – si legge nel rapporto – presenta evidenti falle che alimentano dubbi sulla reale separazione dei poteri e sulla indispensabile autonomia e indipendenza dei magistrati» (nel rapporto ci si riferisce ai giudici).

Una delegazione del Greco – composta da due deputati, uno spagnolo e uno tedesco, e due magistrati, un giudice portoghese e un procuratore slovacco – è stata in Italia per preparare il rapporto alla fine dello scorso aprile. Ha tenuto una serie di incontri e interviste con istituzioni, politici, magistrati e associazioni, e non si può escludere che nel suo lavoro sia rimasta traccia di una polemica che in quei giorni era molto forte, a proposito della decisione di una corrente della magistratura (Md) e di alcune toghe celebri di impegnarsi nella campagna per il No al referendum costituzionale. In ogni caso il rapporto sottolinea opportunamente come in Italia non siano ancora stati introdotti limiti al ritorno delle toghe nei tribunali, al termine di uno o più mandati politici. Una proposta che in realtà lo stesso Consiglio superiore della magistratura ha presentato al parlamento più volte, l’ultima nel 2015, sempre invano.