Martin Kobler, l’inviato delle Nazioni Unite in Libia, è arrivato ieri a Tripoli, poi andrà a Misurata e anche a Tobruk. Solo una settimana fa il governo “ribelle” di Khalifa Ghwell non permetteva a Kobler di atterrare. Ora c’è il nuovo premier Fayez Serraj che si è insediato in città, sempre blindato nella base navale di Abu Sittah, non lo ha eletto nessuno ma sarà il solo governo considerato «legale», sostenuto dalla comunità internazionale e dall’Onu – quel che resta dell’Onu.

Visto il fallimento penoso dell’inviato precedente Bernardino Leon, finito alle dipendenze degli Emirati arabi uniti, Paese coinvolto nella guerra. Kobler appena arrivato ha già dichiarato di essere «molto felice di lavorare con lui, poi si recherà nella capitale della Cirenaica dove c’è l’altro governo ora «ribelle» ma finora l’unico riconosciuto internazionalmente, il cui leader è il generale Khalifa Haftar, armato e sostenuto dall’Egitto.

Siamo sull’altra sponda del Mediterraneo alla geopolitica del caos, risultato della guerra degli errori e degli orrori, quella che nel 2011 abbatté Muammar Gheddafi con i bombardamenti della Nato, scatenata da Francia e Gran Bretagna con Usa e Italia al seguito.

Quella devastazione ha portato subito – in molti se ne sono accorti solo anni dopo – alla somalizzazione della Libia, con due governi e due parlamenti contrapposti, in una frammentazione di centinaia di milizie, la nascita dei santuari in uomini e armi del jihadismo che ha attivato fondi e mezzi nelle imprese delo Stato islamico in Siria e Iraq e poi è tornato ad insediarsi a Sirte, Derna e in molte altre città libiche.

Ora l’arrivo di Serraj, impropriamente presentato come appartenente ad una famiglia di dignitari del re Idris quando in realtà è solo un commerciante senza nobiltà, sembra avviare con l’apertura di un dialogo con tutte le milizie e le parti libiche, un processo di centralizzazione del Paese e stavolta con il sostegno apparentemente unitario della comunità internazionale che, in realtà, ha perlomeno interessi geostrategici contrapposti nell’area.

[do action=”citazione”]Perché siamo alla spartizione della Libia, in aree – e giacimenti petroliferi – d’interesse, in Tripolitania, Fezzan e Cirenaica.[/do]

Del resto a questa prospettiva si è concretamente riferito in una recente e sorprendente intervista al Corriere della Sera Paolo Scaroni, grande conoscitore del Medio Oriente ed ex amministratore delegato dell’Eni. Che ha invitato a «mettere da parte il sogno di una Libia unita», per puntare invece tutto sulla Tripolitania unita, aggiungendo poi che anche il petrolio si può spartire con i concorrenti diretti di Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati uniti.

[do action=”quote” autore=”Paolo Scaroni, 30 marzo 2016″]”Se invece di cercare di comporre questo difficilissimo puzzle libico, ci semplificassimo la vita e cercassimo di favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che poi facesse appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi, credo che potremmo risolvere parte dei nostri problemi”[/do]

A questa spartizione, ahimé, corrisponde l’arrivo del «premier» da noi designato Feyez Serraj; questo è il governo del Paese «spartito» che ci serve e che deve, se necessario, invocare l’intervento armato occidentale, motivato contro l’Isis o in funzione «anti-scafisti».

La fase sembra positiva, ma resta sul crinale della guerra.

L’Italia dichiara che sta con Serraj ma non farà raid, pur avendo rivendicato direttamente da Obama la guida della coalizione in Libia e dimenticando che intanto, pur tra contraddizioni e scarsa convinzione, Washington, Parigi e Londra – scriveva lunedì il Washington Post – sono invece pronte ad intervenire con i raid.

E senza accorgercene, siamo arrivati al terzo livello della missione navale EunavFor, che prevede «scarponi a terra» contro gli scafisti: così pericolosa e gravida di effetti collaterali che Mister Pesc Mogherini quando l’ha presentata nel novembre 2015 ha messo le mani avanti annunciando «purtroppo effetti collaterali»; niente raid, ma intanto, com’è chiaro a tutti, Serraj è potuto arrivare via mare a Tripoli scortato dalla Marina italiana, schierata nel Mediterraneo con sei navi da guerra e la portaerei Cavour; e mandiamo per ora duemila addestratori, mentre forze speciali francesi e britanniche già combattono.

È l’Isis che adesso, dopo tanta barbarie, sembra stare a guardare il caos libico in movimento senza combattere, forte del suo insediamento in due regioni chiave come Sirte e Derna.

E resta lo scorno delle potenze regionali. Non solo Kobler andrà a Tobruk, ha dichiarato che lo farà anche Serraj. Ma lì il generale Haftar, ex militare dalla fisionomia gheddafiana e già dello stato maggiore del raìs poi spia della Cia, non molla, spalleggiato dall’Egitto di Al Sisi che pure ha dichiarato il suo benvenuto a Serraj a Tripoli, sotto pressione com’è per la tragica uccisione di Giulio Regeni che ha rivelato la vera natura del regime del generale golpista tanto amato da Matteo Renzi. Non molla Haftar perché sa che se riconosce l’autorità del nuovo «premier» che si sta insediando a Tripoli, non sarà mai il leader militare della nuova Libia, come ha sempre aspirato a diventare.

Sorprende che l’avvio del lavoro di governo di Serraj si avvalga di tutto quello che ancora fa parte del potere di Gheddafi da vivo e ancora insediato al potere: il tesoro della Banca centrale libica e l’Ente petrolifero di Stato.

È come se in questo momento, consapevoli del disastro provocato, le potenze euro-atlantiche che hanno distrutto quel paese solo cinque anni fa, siano alla disperata ricerca di «un Gheddafi», naturalmente assai più manipolabile, sia ancora per i migranti da rinchiudere in campi di concentramento, sia duramente anti-islamista.

A proposito di ritorni post-coloniali al passato, era stato recentemente il moderno New York Times a chiedersi se la soluzione della crisi libica non potesse essere trovata con un passo indietro nella storia: richiamando a ruolo la famiglia reale.