La 32esima edizione del Festival torinese vanta un confortante numero di nomi femminili in programma. Le sceneggiatrici inglesi che hanno lavorato a The Duke of Burgundy (diretto da Peter Strickland e prodotto dal Bfi) vengono anzi da quella generazione che ha prodotto la forma più robusta di femminismo teorico degli anni Settanta, e che al cinema si è accostata con un bagaglio di marxismo e psicanalisi che non ha abbandonato, ovvero il gruppo di Screen.

Il film, figurativamente elegante, racconta un amore sadomaso lesbico, in una villa immersa nei boschi, tra una studiosa di lepidotteri e la sua «serva», entrambe abbigliate con un look anni Sessanta, dalle atmosfere algide tra Les Biches e The Servant. Da un lato il film critica il meccanismo di dominio implicito in questo rapporto, rivelando il gioco di potere nascosto dentro l’apparente perversione trasgressiva e cercando di spostare invece la relazione sul piano degli affetti autentici, dall’altro dimostra come quella tra le due donne sia una messa in scena fatta di rigidi ruoli e rituali ripetitivi, sui quali è costruito il meccanismo serva-padrona, laddove invece è la schiava che detta il copione alla padrona.

Tra documentario e finzione – come si dice per farsi capire, quando invece si dovrebbe dire semplicemente un cinema che si avvicina al reale con tutti i suoi strumenti, Let’s Go di Antonietta De Lillo riesce nella difficile impresa di raccontare la resilienza di Luca, autore e interprete del film (e fotografo dello stesso assieme a Giovanni Piperno), segueno la drammatica caduta di un reporter che ha fatto copertine sull’Espresso e l’Economist nella disoccupazione e nell’abbandono da parte della famiglia. Luca vive ai margini, in Lombardia, tra gli immigrati, lui stesso un clandestino senza residenza, per l’insipienza di uno stato e di un’economia che hanno tradito chi faceva il suo mestiere, ma potendo contare sulla solidarietà di badanti generose e operai-filosofi, e di un volontariato (ronde Caritas) che va anche a cercare chi ha bisogno – senza piangersi addosso mai, ma riempiendoti gli occhi di lacrime difficili da trattenere. Lasciata Napoli la troupe napoletana si muove in una Milano destituita ma non priva di dignità, senza nebbie, cin colori vivi delle strade e dei mercati e con la loro popolazione della povertà cosmopolita. 

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Una sezione di Onde è dedicata alla regista indipendente (e sperimentale) americana Josephine Decker, con alcuni corti e il suo recente Thou Wast Mild and Lovely di ambientazione rurale, con una fattoria abitata da un padre zoppo che non è un padre, una ragazzina ossessionata dal sesso, e un lavorante muscoloso ma sposato, che cade nella trappola di queste relazioni morbose. Tra Faulkner e Richard Brooks, ovvero tra sensualità malata e riportata alla natura, ai cavalli, alla terra, e gli scambi di coppia metropolitani, è un cinema visivamente incisivo e radicato nell’animalità, come quando la fanciulla cattura dal ruscello una rana, se l’infila nella canottiera, si lascia carezzare dal viscido animaletto e poi lo estrae fulminea prima che scenda più in basso e le strappa la testina con i denti offrendosi al bacio del suo amante con il sangue dell’anfibio che le cola dalle labbra. Oltre è difficile andare.

Un’altra firma femminile per uno dei documentari migliori visti finora (ma la selezione è come sempre a Torino molto buona) Stray Dog, di Debra Granik, dedicato ai bikers del Sud degli Stati Uniti, che vanno in colonna verso Washington, per rendere omaggio ai loro compagni caduti in Vietnam o ancora prigionieri.
Incentrato sul personaggio di Stray Dog, un biker tatuato, con la bandana e i capelli e la barba bianchi, ci rivela come sotto questa divisa scontata in sella a una luccicante Harley, ci sia un uomo sensibile, nonno attento e patrigno generoso dei figli della sua moglie messicana, per comunicare con i quali ha imparato lo spagnolo. Stray Dog è un leader naturale, che aiuta chi come lui è stato completamente abbandonato dal governo americano al suo rientro in patria, col suo bel carico di sensi di colpa da smaltire con l’aiuto di uno psicologo biker come lui, e una catena personale di sostegno, ma con una notevole consapevolezza degli interessi che stanno dietro alle guerre che l’America combatte, e allo stesso tempo con il prevalere della solidarietà verso quelli che come lui hanno creduto o sono stati costretti a partire per i diversi fronti.

Credibile mentre aiuta una anziana black che è rimasta da sola, perché i suoi ragazzi sono morti in Afganistan, e le rifà il pavimento prima che la casa crolli, riesce a commuovere quando piange ai funerali di chi muore in guerra anche oggi. Un bel saggio che decostruisce le nostre aspettative su certi stereotipi culturali, offrendo una nuova epica alle moto on the road, e riproponendoci il dilemma tra le contraddizioni di un’America sempre più confusa.