Ufficialmente manca ancora qualche mese ma, di fatto, martedì scorso, durante l’annuale dibattito parlamentare sullo stato della nazione, è iniziata la campagna elettorale per le politiche, che si annuncia aspra e concitata: in gioco non c’è solo il governo, ma un intero sistema: il bipartitismo che ha segnato la storia politica della Spagna democratica, e che, nonostante gli alterni splendori, ha saputo traghettare la Spagna dalle tenebre della dittatura alla modernità. I sondaggi sono impietosi (-24% per il Pp e -10% per il Psoe rispetto alle ultime politiche, dati Metroscopia a inizio mese) e tracciano la parabola discendente del duopolio Pp/Psoe, in affanno nel tentativo si non soccombere all’ondata di scontento dei cittadini.

Con queste le premesse, è comprensibile l’isteria da fine impero che ha segnato il dibattito parlamentare: colpi bassi ai limiti dell’insulto, tra un Rajoy impegnato a tessere la favola della crescita e della ripresa, e un Pedro Sanchez senza nulla da perdere, all’attacco a testa bassa nel tentativo di salvare la sua leadership e la credibilità del partito. Il premier avrebbe preferito toni più moderati: una sorta di tacito patto di non belligeranza per evitare di soffiare sul fuoco sempre vivo di Podemos, non (ancora) rappresentato in parlamento, eppure onnipresente nei riferimenti e nello scambio di battute tra governo e opposizione.

Il Pp, insomma, sarebbe disposto a una tregua elettorale, a un fronte comune nel segno della continuità istituzionale pur di non favorire la formazione di Pablo Iglesias e Ciudadanos, un partito di centro guidato da Albert Rivera, nato anch’esso sull’onda dello scontento generale e consolidatosi come opzione alternativa per gli elettori delusi del Pp; i socialisti però hanno scelto di marcare le distanze dal Pp, cercando così di ricostruire un’identità di sinistra che nei piani dovrebbe frenare il travaso di voti verso Podemos.

Anche a costo di ribaltare il tavolo e rischiare una dolorosa débâcle alle urne. Indicazioni in merito arriveranno comunque dalle regionali: l’Andalusia, feudo socialista presidiato da una delle personalità più forti del partito, Susana Díaz, sarà un test chiave (fissato per il 22 marzo); ma anche la regione di Madrid, alla quale, dopo aver silurato Tomás Gómez, il Psoe ha candidato Angel Gabilondo, intellettuale vicino al partito (ma non parte dell’apparato), ex rettore dell’università Autonoma di Madrid ed ex ministro dell’istruzione.

Podemos,prende nota e studia le mosse degli avversari, con un occhio sullo scacchiere politico nazionale e l’altro rivolto verso la Grecia: le possibilità di governo della formazione nata dal 15M sono connesse anche ai successi in chiave antitroika di Tsipras all’altro estremo del mediterraneo. Non solo per una questione politica, ma anche per un effetto di galvanizzazione dell’elettorato: Podemos, che ha un anno di vita, è un partito senza passato, e la traiettoria di Syriza ne è in qualche modo il surrogato e il banco di prova. Se la cura di Tsipras sortirà effetti positivi, il risultato di Podemos alle urne ne trarrà beneficio; in caso contrario, è possibile che molti potenziali elettori, tornino nei ranghi del Psoe o di Izquierda unida (Iu).

Sempre ammesso che Iu non esca a brandelli dalle lotte intestine e dal cambio di guardia alla segretaria, dove il giovane e promettente Alberto Garzón, già leader in pectore del partito, dovrebbe succedere a Cayo Lara, dirigente della vecchia guardia al termine del suo corso politico. Nella guerra interna, Madrid è il fronte più caldo, come città e come regione: Garzón è favorevole a un’alleanza con Podemos a livello locale, ma nella capitale, quest’ipotesi di (auspicabile) convergenza è osteggiata dalla dirigenza locale del partito.

Un ostruzionismo riproposto anche su scala regionale, tanto che Tania Sánchez – fino a poco meno di un mese fa candidata di Iu alla Comunidad de Madrid e compagna di Pablo Iglesias – ha dovuto abbandonare il partito per creare una lista di convergenza con Podemos (Convocatoria por Madrid, presentata sabato scorso).

A livello nazionale le cose stanno in maniera diversa. Localmente Podemos non ha radici salde e per le comunali e le regionali del prossimo 24 maggio deve cercare l’appoggio di forze esterne. Alle politiche, invece, il partito dovrebbe avere lo slancio sufficiente per correre da solo. Così dicono i sondaggi; e così vorrebbe Iglesias, che – non è un mistero – preferirebbe stare al comando da solo. Calcoli più oculati verranno comunque fatti all’approssimarsi delle politiche, anche valutando la direzione del vento greco.

Intanto l’altro ieri Podemos ha convocato il suo contro-dibattito sullo stato della nazione, in cui Iglesias ha mostrato una volta di più i denti – affiliatissimi –al partito di governo. Dal palco, il leader di Podemos ha riaffermato tutti i punti centrali del programma: revisione del debito pubblico, un reddito minimo garantito per combattere l’esclusione sociale (una delle piaghe e degli effetti più nefasti della crisi spagnola), investimenti in sanità e istruzione e una tassa sui grandi capitali, sul modello francese: «So che ci vogliono persone ricche per far funzionare l’economia di mercato, ma ricchi responsabili», ha detto Iglesias a poche ore dall’incontro che alcuni dirigenti del partito hanno intavolato per spiegare il piano economico ad una trentina di esponenti di grandi imprese, tra cui Google e la banca HSBC. E poi la sfida diretta a Mariano Rajoy, che Iglesias considera il suo vero avversario politico: «Il dibattito dovremmo farlo faccia a faccia, in televisione. Dica lei dove e quando».

Lo scontro è sempre più intenso: la rincorsa di Podemos è ormai sulla retta finale.