Ore cinque del mattino, 1 settembre, Tunisi. A dare la notizia al telefono è uno dei rifugiati del campo di Choucha, al confine con la Libia: «Ci stanno portando al confine con l’Algeria, ci mollerano nel deserto, siamo…». Poi la chiamata si interrompe, uno dei poliziotti, probabilmente strappa di mano il telefono a O.; da quel momento per tutta la mattina si perdono le tracce dei dieci ragazzi, nigeriani e sudanesi, da una settimana detenuti nella prigione di Wardia a Tunisi per aver protestato di fronte alla delegazione dell’Unione europea chiedendo di essere trasferiti in Europa, e che i funzionari UE hanno lasciato arrestare dalla polizia tunisina. Poi un sms dopo qualche ora: «La polizia ci ha lasciato alla frontiera algerina, vicino Kasserine».

Mentre l’Unione europea si appresta a passare alla fase due della missione militare Eunavfor e firma accordi bilaterali con i paesi africani per bloccare le partenze dalla Libia, la Tunisia, una pre-frontiera d’Europa particolarmente cruciale in questo momento vista la prossimità geografica con la Libia, arresta e deporta verso l’Algeria rifugiati e richiedenti asilo. La costruzione delle pre-frontiere europee comincia anche lasciando che i cosiddetti «paesi terzi» «gestiscano» a loro modo migranti e rifugiati, non importa se bloccandoli nel deserto di Choucha per quattro anni o deportandoli nel deserto algerino.

Questo è quanto accade in Tunisia, Paese che pur avendo firmato la Convenzione di Ginevra a oggi non ha ancora una legge sull’asilo; e questo fa sì che anche coloro che hanno ottenuto la protezione internazionale dall’Alto Commissariato per i Rifugiati possano essere arrestati e detenuti, rischiando di essere poi deportati nel deserto algerino. Rifugiati illegalizzati dalle autorità tunisine per i quali sono semplicemente migranti irregolari sul territorio. O richiedenti asilo che, come le dieci persone deportate ieri mattina nel deserto algerino, erano stati illegalizzati (la non concessione del diritto d’asilo li ha trasformati in migranti irregolari sul territorio tunisino) nel 2012 dall’Unhcr, che come a molti altri in fuga dalla Libia e arrivati al campo di Choucha, sono stati diniegati della protezione internazionale.

[do action=”citazione”]L’Unione europea ormai verso l’esternalizzazione della crisi a «paesi terzi»[/do]

Se da un lato la Tunisia ha finora sempre resistito alla pressione dell’Ue rivolta a costruire campi e strutture detentive finanziati dall’Europa, dall’altro la «gestione» dei migranti provenienti dalla Libia realizza in parte quello che i paesi europei si aspettano, ovvero fare in modo che questi, in un modo o nell’altro, non arrivino sull’altra sponda del Mediterraneo. La prigione di Wardia, situata in quartiere periferico di Tunisi con lo stesso nome, è uno dei luoghi, inaccessibile alla maggior parte degli avvocati, che il governo tunisino utilizza per far sparire i richiedenti asilo dal territorio. A Wardia però sia l’Alto Commissariato per i rifugiati che l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) possono accedere, ma non risulta che le due organizzazioni abbiano riportato cosa accade all’interno, e soprattutto non vengono seguite le tracce di chi da Wardia improvvisamente scompare. Una volta arrestati e portati a Wardia, i rifugiati vengono minacciati dalla Garde Nationale tunisina di essere deportati in Algeria nel caso in cui ad acquistare con i propri mezzi economici un biglietto aereo per fare ritorno nel proprio Paese di origine.

Tra loro vi sono anche famiglie di siriani, a cui la Tunisia non ha concesso un permesso di soggiorno né una protezione umanitaria. A Wardia finiscono anche coloro che arrivano dal mare: di fatti, in questo momento con l’inasprimento dei controlli alla frontiera libica e la costruzione in corso del muro pianificata dal governo tunisino, in Tunisia arriva solo chi viene soccorso dalla Guardia Costiera tunisina nel tentativo di arrivare in Europa dalla Libia. «Sulla nostra imbarcazione, partita dalla città di Zwhara, eravamo 97 eritrei, e molti come me avevano già ottenuto l’asilo politico. Al largo della Tunisia siamo stati salvati dalle autorità tunisine», racconta R., rifugiato eritreo «ma poi giunti nel porto di Zarzis 60 di noi sono stati portati a Wardia, dove siamo rimasti un mese». Senza alcuna giurisdizione che ne regolamenti il funzionamento, Wardia resta un luogo rispetto a cui non è possibile avere numeri su chi entra e chi esce. E alla totale opacità di questa prigione va ad aggiungersi anche l’invisibilità di altri centri detentivi per migranti, il cui numero sembra oscillare tra dieci e tredici, sparsi nel Paese. Centri di cui ha dato nota il dossier redatto nel 2013 dall’Alto commissario per i Diritti Umani dell’Onu François Crepeau e di cui parlano molti migranti in Tunisia.

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Dal 2011 lo spazio-frontiera tunisino è diventato paese di transito ma anche, sempre piú, paese di «immigrazione involontaria»: in effetti, molte delle persone in fuga dalla Libia restano intrappolate in Tunisia in un limbo giuridico che impedisce loro di procedere in qualunque direzione. Con le molte domande di asilo diniegate dall’Unhcr, che trasforma dunque richiedenti asilo in migranti irregolari sul territorio tunisino, e a fronte dell’impossibilità per chi ottiene la protezione di essere regolarizzato dalle autorità tunisine, per molte e molti migranti arrivati in Tunisia, i muri della prigione di Wardia non sono gli unici: il rifiuto dei paesi europei di garantire il resettlement ai pochi rimasti al campo di Choucha, l’assenza di una legge sull’asilo e la tassa di 80 euro mensili per ogni mese trascorso da irregolare da pagare per rientrare nel proprio Paese di origine sono solo alcuni degli ostacoli che bloccano i rifugiati in Tunisia.

E il governo tunisino cerca d’altro canto di risolvere il problema delle presenze non volute disperdendo i migranti sul territorio ed effettuando deportazioni nel deserto algerino, sempre piú frequenti nell’ultimo anno, senza che peraltro vi sia un accordo tra i due Paesi.

Con l’invisibilizzazione politica dello spazio-frontiera tunisino, certamente defilato rispetto ai riflettori puntati in questo momento sulla sponda nord e sui numeri di sommersi e salvati nel mare Mediterraneo che scandiscono i picchi di attenzione mediatica, diventa difficile parlare dei «piccoli numeri» che attualmente caratterizzano il contesto migratorio della Tunisia. Non solo, guardando alle prigioni segrete tunisine esclusivamente attraverso il metro del rispetto dei diritti umani si rischierebbe di corroborare la narrazione dell’Unione europea, pronta a firmare accordi con dittature africane come quella eritrea e insieme a condannare l’inottemperanza dei paesi terzi nei confronti degli standard internazionali umanitari. Tanto piú che in questo momento gli stati europei stanno dando prova di mettere in atto ovunque vere e proprie cacce ai migranti.

Il dossier pubblicato dal sito Storiemigranti, Rifugiati in Tunisia: tra detenzione deportazione, frutto di un lavoro di ricerca possibile attraverso le testimonianze raccolte in diretta telefonica con rifugiati detenuti a Wardia. E questo dossier guarda alla Tunisia per mostrare e contestare gli effetti delle politiche di esternalizzazione dell’Unione europea che, direttamente stringendo accordi con i paesi terzi, o indirettamente lasciando che siano questi a gestire a loro modo il «problema», cerca di moltiplicare le proprie pre-frontiere.