«Ma dove sta, alla fine, il nodo irrisolto, il punto cruciale che ha portato non solo al crollo dell’Urss e del suo impero, ma più largamente a una sconfitta del movimento operaio mondiale nel chiudersi di questo secolo: insomma dove sta l’errore strategico che ha condotto il comunismo allo scacco? Sta nella linea della dittatura militare imboccata subito e fatalmente dai bolscevichi nel 1917? Oppure ha la sua fonte nello stesso marxismo e socialismo europeo, prima ancora di Lenin, facendo salva (ma non proprio tanto) la barba augusta di Karl Marx?».

Sono domande che si rivolge Pietro Ingrao nel quindicesimo (e penultimo) capitolo, «Liberazione e statalismo», di un volume inedito concluso nel luglio del 1998. Il libro, con il titolo «Promemoria», è in corso di stampa presso la casa editrice Ediesse nella collana Carte Pietro Ingrao.

Gli interrogativi che si pone Ingrao costituiscono il costante riferimento problematico che dà senso, ed orienta, le riflessioni sulle vicende e le scelte del Pci e della sinistra italiana negli anni della Repubblica, fino all’assassinio di Aldo Moro.

Ma, in questo capitolo finale, quelle domande e la tematica relativa alla ‘liberazione’ (così presente nell’impegno politico di Ingrao) sono mosse dalle argomentazioni che Bruno Trentin svolge ne «La città del lavoro», pubblicato da Feltrinelli nell’autunno del 1997: «La tesi centrale del libro, scrive Ingrao, è che, nella sinistra europea, già a partire dalla sua culla tedesca, c’è stata una lettura ‘statalista’ del processo di liberazione della classe operaia».

Una scelta che secondo Trentin, riassume Ingrao, «opacizza le nuove, radicali forme di alienazione del lavoro subordinato e che, alla fine, affida la fuoruscita dall’oppressione capitalistica e la transizione verso una società socialista alla conquista dello Stato. È così elusa e alla fine cancellata – sostiene Trentin – la questione essenziale della liberazione del lavoro subordinato, espropriato della sua creatività nel luogo della produzione, e quindi ferito nella sua identità umana, schiacciata dall’universo macchinale».

Ne «La città del lavoro» Trentin illustra bene la dinamica di quella che considera una fatale deriva. La sinistra ha spostato la ‘rivoluzione’ sociale dal cuore della ‘società civile’, ovvero dal conflitto nel luogo di produzione, alla conquista dello Stato.

Trentin, pertanto, contrappone nettamente la ‘società civile’ all’ambito e alla azione del potere politico statale. Ingrao ritiene che non corrisponda ai fatti descrivere, come fa Trentin, una ‘società civile’ che si possa affermare «a sé», distinta da «un potere pubblico che ha il volto (e la complessità articolata) che la sfera dello Stato è venuta via via assumendo nella modernità».

Il nesso tra ‘pubblico’ e ‘privato’ è destinato a dilatarsi. Così Ingrao ritiene necessaria, da parte degli attori sociali, «più politica, ma anche più connessioni fra iniziativa nell’intimo della produzione (per usare l’antico termine gramsciano) e un’immaginazione nuova (oggi quasi inesistente) di istituzioni».

Trentin vede nella ‘creatività’ del lavoro la fonte viva di una liberazione piena della ‘individualità’. Ingrao replica che il «tragico» Novecento ha svelato «una complicazione della soggettività umana».

Allora l’«individualità», «rimanda a un universo assai complesso e multiforme, radicalmente ambiguo ed oscillante: mescolare di più le sfere della vita e del produrre, se vogliamo fare i conti con queste complicazioni e oscurità e se non vogliamo che il nodo del lavoro resti drammaticamente isolato e frantumato, e alla fine perdente».