Era il 5 ottobre 2010. L’allora presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua disse: «Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale». Col sistema contributivo, com’è noto dopo la riforma Dini del 1995, i trattamenti maturati da collaboratori e consulenti non arriveranno alla pensione minima. Chi inizierà ad andare in pensione dal 2040 in poi non avrà una pensione, propriamente detta. Nei casi migliori chi ha 35 anni prenderà una pensione più bassa del 25% rispetto ai genitori nati intorno al 1945. Mastrapasqua ha parlato di una «bomba sociale», ma non l’ha rivelata.

Da quando è in carica, il suo successore Tito Boeri allude alle sue conseguenze, ma non alle cause strutturali. Ieri, in un intervento alla Cattolica di Milano, Boeri ha rilanciato l’allarme. L’Inps ha studiato la storia contributiva della «generazione 1980» prendendo a riferimento un «universo di lavoratori dipendenti, ma anche artigiani». È emerso come per un lavoratore tipo ci sia «una discontinuità contributiva, legata probabilmente a episodi di disoccupazione, di circa due anni».

Boeri ha aggiunto che i «buchi contributivi» pesano sul raggiungimento della pensione. A seconda del prolungamento dell’interruzione può slittare «fino anche a 75 anni». Ma «non voglio terrorizzare ma solo rendere consapevoli dell’importanza della continuità contributiva» ha avvertito.

Non è terrore, è realtà. Tale continuità è a rischio perché il lavoro è intermittente. La precarietà contributiva potrebbe essere superiore ai due anni in totale calcolati dall’Inps. E i 75 anni previsti dal suo presidente sono, già oggi, un eufemismo per dire che la pensione non esiste per i nati dal 1980. «Una generazione indicativa» sostiene Boeri. Ha ragione. Nella stessa condizione c’è quella precedente e quella successiva. Tutti lavoreranno a vita con redditi da poveri, o inesistenti.

Il circolo vizioso della precarietà si rafforzerà finché non sarà affrontato il problema: l’insostenibilità del sistema contributivo. Boeri sollecita la flessibilità previdenziale in uscita. Una riforma presentata come un’opportunità per assumere i giovani più disoccupati d’Europa: «situazione intollerabile» ha commentato. C’è tuttavia qualcosa che non va in questo ragionamento. Punta tutto sull’aumento dei contratti a tempo indeterminato finanziati dagli sgravi contributivi alle imprese.

Esigui, costosi e in diminuzione, perché il governo li sta tagliando, come ha dimostrato ieri lo stesso Inps: a febbraio 48 mila in meno rispetto ad un anno fa, meno 12%. Senza contare che i pochi assunti con il Jobs Act di Renzi, in maggioranza rinnovi di vecchi contratti precari e over 50, potranno tornare disoccupati nel 2018, quando i fondi statali saranno finiti. Con queste premesse, le generazioni nate dagli anni Settanta a oggi saranno anche perdute, perché qualcuno le ha volute perdere.

La politica resta ben lontana da questa urgenza strutturale e si concentra su interventi di restyling della riforma Fornero. Ieri, in un’audizione sul Def alla Camera, il ministro dell’Economia Padoan ha continuato a ragionare sulla droga degli incentivi: «Per migliorare le opportunità per chi vuole andare in pensione e per chi entra nel mercato del lavoro» ha detto. E ha evocato un’altra leggenda nella crisi: la previdenza complementare. Come se i lavoratori poveri oggi potesse permettersela.

Susanna Camusso (Cgil) non si fida di Padoan. E non solo per l’allusione alla previdenza complementare: «Vogliamo un piano straordinario per l’occupazione giovanile da finanziare con una riforma fiscale. Bisogna spostare la tassazione su chi ha di più. Il governo la smetta di sfuggire: bisogna investire. Oltre a dire che c’è il rischio di una generazione perduta bisogna decidere come si fa, invece, a dare lavoro a questa generazione». Annamaria Furlan (Cisl) auspica che il governo faccia sul serio sulla flessibilità. Carmelo Barbagallo (Uil) ritiene invece che Padoan non abbia nemmeno le risorse: «Quella di Padoan è un’apertura virtuale». Sui veri problemi, è inesistente.