Un enorme, altissimo e sfavillante grattacielo a Mumbai con una parte trasformata in un giardino innaffiato con zampilli che dal basso sono indirizzati verso l’alto, quasi a sconfiggere la forza di gravità. È l’immagine di una ricchezza oscena alimentata dalle risorse naturali espropriate da un gruppo ristretto di imprese e dal lavoro di un miliardo di uomini e donne. Inizia così il nuovo libro della scrittrice Arundhati Roy, da poco nelle librerie per Guanda. Il titolo – I fantasmi del capitale (pp. 180, euro 14) -, è la stessa autrice a spiegarlo: fa riferimento esplicito, cambiando il complemento di specificazione, a una frase di Karl Marx. Ma in questo caso non c’è lo spettro del comunismo che si aggira per l’India, bensì quello di un capitale indifferente alle sorti delle società dove opera. Per accumulare profitti è disposto a cacciare gli abitanti di centinaia di villaggi, di militarizzare intere regioni del paese, di limitare la libertà di espressione, di alimentare il razzismo e di finanziare i partiti fondamentalisti hindi ora al potere, specializzati in pogrom di musulmani. Senza dimenticare che in nome della democrazia, il Kashmir è ridotto a una prigione a cielo aperto dove agiscono squadroni della morte, mentre la frontiera con il Pakistan è una delle più militarizzate del mondo con il rischio di una guerra che può sfuggire al controllo degli apprendisti stregoni di Dehli e Islamabad, visto che i due paesi hanno entrambi un arsenale militare.

Gocce di ricchezza

Non è la prima volta che Arundhati Roy analizza da vicino la società indiana. Scrittrice di successo per un fortunato romanzo – Il dio delle piccole cose che, ad anni di distanza, mantiene la sua potenza narrativa – ha usato la sua maestria nella scrittura per narrare i conflitti sociali, le pratiche di resistenza degli abitanti nella più grande democrazia del mondo. È diventata quella figura di intellettuale dissidente a suo tempo magistralmente descritta da Edward Said per sottolinearne la vicinanza, ma non l’organicità, ai movimenti sociali.

Il libro si apre dunque con l’immagine di un enorme grattacielo, simbolo del capitalismo hindi. Ironicamente, Arundhati Roy annota che la sua visione al tramonto è certo un bello spettacolo, ma non rappresenta quella ideologia neoliberista del trickle down, in base al quale la ricchezza sgocciola dall’alto in basso e tutta la società beneficia del capitalismo fondato sul libero mercato. Per un decennio, la quota di ricchezza «gocciolata» verso il basso ha favorito solo la crescita di una classe media, ma nulla di più. La scrittrice ne è consapevole, anzi con ironia e sarcasmo parla del ruolo politico che esercita nella società indiana, oscillando tra adesione entusiasta al capitalismo hindi e una critica bon ton alle ingiustizie sociali in nome dei diritti umani violati dalle multinazionali e dalle forze di polizia. Ma è una critica, questa, che si limita solo a una supplica verso i potenti, affinché non abusino del loro potere.

Arundhati Roy non è però un’ingenua. Sa che l’India è diventata il waste land dove multinazionali high-tech hanno spostato alcune produzioni o servizi, favorendo lo sviluppo di parchi tecnologici e distretti industriali che hanno reso il subcontinente asiatico la nuova frontiera della produzione di software, microprocessori, biotecnologie. Ma questo è solo un frammento di una totalità costituita da industri minerarie, dell’acciaio, automobilistiche e finanziarie che spesso fanno capo a una famiglia. Così Bangalore può crescere mentre intere regioni sono privatizzate da chi estrae bauxite; oppure quote di territorio sono «desertificate» dalla presenza umana per deviare il corso di fiumi, costruire dighe, mentre i contadini sono cacciati brutalmente via dall’esercito per regalare le terre ai giganti dell’agro-alimentare. I fantasmi del capitale sono uomini e donne che, chiusi nelle torri d’avorio, si dilettano anche nel grande casinò della finanza, aggiungendo così profitti a profitti.

I poveri, categoria che nel libro della scrittrice perde ogni aura romantica di vita in armonia con la natura, come qualche teorico della decrescita sostiene, non hanno che due possibilità: raggiungere altri poveri nelle megalopoli per condividere una vita di stenti e di fame; oppure rifugiarsi nelle foreste e ingrossare le fila della guerriglia maoista, una realtà politica-militare che controlla ormai territori più estesi dell’Italia, ritenuta una pericolo per la sicurezza nazionale – cioè l’insindacabile rule law della proprietà privata – che merita l’uso dell’esercito e la violazione sistematica dei diritti umani. Arundhati Roy registra notizie di eccidi, di torture, ma anche dell’occupazione dello stato da parte di imprenditori e capitalisti rampanti. Parlare di conflitto di interessi come una anomalia del sistema politico significa chiudere gli occhi sulla compenetrazione tra imprese e politica divenuta sistema.

La giostra dei festival culturali

Elementi poco noti in Occidente, ma che invece rappresentano fattori costitutivi della più grande democrazia del mondo, dove l’inossidabile divisione in caste della società indiana continua ad essere un ben oliato dispositivo per la riproduzione degli assetti di potere esistenti. Forse più che guardare all’America bisognerebbe guardare all’India per capire come funziona la democrazia nel ventunesimo secolo.

La scrittrice si dilunga inoltre sulla moltiplicazione di festival letterari e artistici in India. Sono invitati scrittori, poeti, musicisti di fama mondiale, senza dimenticare la presenza di qualche intellettuale critico. La libertà di espressione non è certo messa in discussione, ma a patto che siano intellettuali graditi alle imprese che sponsorizzano le kermesse culturali. I festival artistici funzionano come le organizzazioni non governative: puoi parlare contro la povertà, puoi denunciare l’esistenza di slums come un colpo alla stomaco, ma guai a proporre soluzioni che mettano in discussione lo status quo. Fino alla constatazione che lo ong come i festival culturali sono un sofisticato strumento di normalizzazione del dissenso e per attingere a innovative idee per fare affari e gestire il potere.

Arundhati Roy non fa sconti a nessuno. È si un’intellettuale partigiana, ma usa spesso parole poco lusinghiere verso i diversi partiti comunisti o la guerriglia maoista. I primi per la loro subalternità al potere delle imprese; la seconda per l’incapacità a parlare e l’indifferenza alla crescita dei pur numerosi e partecipati movimenti sociali. La scrittrice confida sulla loro diffusione, ma sa che possono essere cancellati se anche nel Nord del mondo non si svilupperà una ribellione contro quei fantasmi del capitale che girano indisturbati per il pianeta.