Fid numero 27, l’inaugurazione dell’edizione 2016 è stata affidata a Corniche Kennedy di Dominique Cabrera, una scelta che «gioca» con la città in cui si svolge il festival, la Corniche infatti costeggia Marsiglia, e al tempo stesso omaggia una bravissima cineasta esploratrice di quel genere fuori dal genere che attraversa poeticamente e teoricamente la rassegna diretta dal critico Jean-Pierre Rehm. Fid significa infatti Festival internazionale del documentario ma chi si aspetta qualcosa di «canonico» – potremmo anche aprire una lunga digressione sulla «canonicità» del documentario – diciamo per semplificare un «racconto del vero» secondo le regole del genere, rimarrebbe quantomeno spiazzato.

 

 

Non è questo infatti il cinema documentario che interessa il festival attento piuttosto da sempre a una narrazione del mondo attraverso le immagini capaci di esplorarne tutte le potenzialità. È la dimensione sensoriale di ogni fotogramma che conquista più che la distinzione assai artificiosa tra finzione e realtà, e soprattutto la sua attitudine a restituire il senso profondo del nostro tempo, il sentimento del conflitto, la discrepanza tra visione abituale e sorpresa dello sguardo. Sia essa in un diario o negli archivi dell’infanzia, nel mistero sonnolento dei luoghi, in una irrequietezza fantastica, nella vita e nei gesti di ogni giorno.

 
Corniche Kennedy è ispirato al romanzo di Maylis de Kerangal (Riparare i viventi, Feltrinelli), di cui conserva anche il titolo, una storia di adolescenti, tredici o diciassette anni, di piccole ribellioni, di corpi slanciati e di sfide trasgressive: volare tra l’azzurro del cielo, il sole e il blu del mare tuffandosi dalle rocce della corniche a sfidare la legge di gravità.
Così riassume il film di Cabrera Jean-Pierre Rehm: «Omaggio a Marsiglia e ai suoi abitanti, questo film è generoso, curioso, fedele allo spirito dei luoghi accidentati in cui si svolge, magnifico, pericoloso, esaltante. Dominique Cabrera è riuscita a dirigere la sua piccola troupe e a farla entrare nella sua lingua, nella sua visione, allo stesso modo in cui è stata capace di domare le rocce. Pensiamo a Aniki Bobo di De Oliveira, ci ricordiamo di Jean Vigo : ci sono qui la stessa energia, lo stesso umorismo, la stessa tenerezza. E cosa di meglio che per il debutto proiettare un film a qualche metro da dove è stato girato?».

 
La scommessa di superare la linea alla ricerca di un cinema che sappia interrogare ancora se stesso, fonda l’intera programmazione a cominciare dalla retrospettiva quest’anno dedicata al regista sudcoerano Hong Sang-soo, molto amato in Francia – del resto ha lavorato con grandi attrici francesi come Isabelle Huppert protagonista di In Another Country, e lui stesso non nasconde nei suoi film, variazioni sulla dinamica delle storie che si dipanano da un incontro amoroso, il suo legame con la nouvelle vague e un certo tocco rohmeriano.

 
E anche ciò che caratterizza il concorso internazionale (diciassette titoli per lo più anteprime mondiali) è l’esplorazione di universi artistici che il mondo lo restituiscono nell’invenzione. Mata Atlantica di Elisabeth Perceval e Nicolas Klotz prende il suo titolo dal nome portoghese della foresta che copre il Brasile e che negli anni è stata massacrata dalla deforestizzazione; ne rimane solo qualche traccia, un parco nel cuore di San Paolo, al cui centro sembra sfidare il tempo la statua di un essere misterioso. Un Pan, come racconta alla ragazza il fidanzato, seducente e riccioluto di cui la creatura fantastica sembra avere preso le sembianze – lo interpreta il giovane regista brasiliano Gregorio Graziosi – ma che ritroviamo anche in una elegante signora incontrata dalla giovane donna per caso nel giardino. La ragazza scompare, qualcuno viene incolpato, è un africano, ha visto, conosce la sostanza segreta della foresta, ma deve essere per forza colpevole. Ci sono molte cose in questo breve film di Klotz e Perceval che nel mito della leggenda fanno affiorare le radici di un conflitto passato e presente.

 

 

Come in una ballata si ripercorrono i soprusi di una colonizzazione tradotta oggi in marginalità, miseria, esclusione della parte africana del Paese. Ma anche di una violenza brutale che profitti e economie continuano a commettere sulla natura del continente spogliandolo – in senso letterale – della sua foresta. Spiriti, ombre scure, producono dei detour, la realtà ha un sentimento arcaico, profondo, universale che ne supera il contesto. É il movimento continuo di una storia che si ripete, la cui trama è stratificata, e obbliga a una lettura che segue molte piste.
É la stessa traiettoria che si dipana in Further Beyond , ritratto di Ambrose O’Higgins, il padre di Bernardo O’Higgins, il primo leader del Cile indipendente. I due registi Christine Molloy e Joe Lawlor al biopic preferiscono la dimensione del viaggio tra il Cile e l’Irlanda, il paese originario degli O’Higgins, che li porta a riflettere sulla forma narrativa scelta, su cosa significa filmare i luoghi cercandovi la storia. Una riflessione aperta.