«Tra…» trasgredire, tradire, tradurre, trasmigrare, tra… è come se Francesca Marciano avesse esplorato approfonditamente quello spazio mentale, temporale, fisico e psicologico racchiuso in questo pre-fisso (in movimento) che segna il passaggio, il senso del passaggio, da una condizione ad un’altra.

«La sua nuova vita la stava aspettando dietro l’angolo. Bastava solo saltarci dentro. Non c’era nulla da temere. Dopotutto i grandi cambiamenti arrivano così, senza preavviso, come le alluvioni o gli incendi».

La frase in quarta copertina del volume sintetizza lo spirito che percorre Isola grande isola piccola il bel libro di racconti edito da Bompiani scritto originariamente in inglese, come peraltro i suoi romanzi precedenti (Il cielo scoperto, Casa rossa, La fine delle buone maniere), uscito negli Stati Uniti un anno fa con il titolo The other language ed. Pantheon con ottime recensioni e grande attenzione, è arrivato tra i tre finalisti del premio The Story Prize, il suo nome è stato paragonato a quello di Alice Munro da Michiko Kakutani la severissima critica del NYT.

Il libro è stato presentato il 20 maggio alla Fandango da Jhumpa Lahiri e Chiara Valerio, anche loro scrittrici, davanti ad un «parterre de roi» di giornalisti, scrittori, sceneggiatori, attori, registi, amici con cui Marciano ha collaborato come sceneggiatrice, sempre in lingua italiana con autori italiani, da Verdone a Bertolucci, l’elenco completo richiederebbe troppo spazio. Siamo cresciute ascoltando i Beatles, il primo disco a 10 anni, e lei sapeva subito tutte le parole e le cantava con la pronuncia giusta, anche quelle di Dylan e di Leonard Cohen e le poesie di Ginsberg e la Beat generation. La Grecia d’estate era una palestra per il nuovo idioma. L’America immaginata, desiderata e poi vissuta.

L’inglese era «la lingua» quella che si desiderava possedere perché poteva spalancare le porte della libertà e dell’avventura in tutti i sensi, e questo a Francesca era chiaro fin da piccola, e Francesca quando si mette in testa qualcosa è piuttosto decisa e quindi «l’inglese» le si è arreso docilmente.

L’ha detto alla presentazione, perché, naturalmente essendo lei italiana davanti ad un pubblico italiano l’argomento è stato centrale, «scrivere in un’altra lingua dà maggiore libertà, ci si autocensura di meno, è come quando si è piccoli e s’inventa un linguaggio segreto per non farsi capire dai grandi» e così dopo aver vissuto per almeno 12 anni in paesi anglofoni, America e Africa con molte soste in India, la lingua dei suoi romanzi è stata quella, le si è imposta spontaneamente, il primo libro l’ha scritto in Kenya. «Mi riconosco pienamente nella bella traduzione di Tiziana Lo Porto» ha aggiunto. Poi ha giustamente ricordato che il mondo, il nostro stesso paese, è pieno di scrittori che emigrano e che non scrivono nella loro lingua madre, ed è un dono che arricchisce la letteratura, l’inglese di Francesca, di lingua madre italiana, non sarà mai come quello di un americano o di un australiano.

In questi racconti c’è un percorso geografico di luoghi e sentimenti, partenze che scandiscono separazioni, riti di passaggio adolescenziali, lutti prematuri, tuffi nel passato e nel mare reale, che entra spesso nelle pagine, come l’azione di nuotare, c’è anche ironia, sguardo lucido, attento e appassionato su quelle frazioni di vita, tradimenti del tempo, che sono il cuore di ogni racconto, perché in ognuno di quei «Tra…» c’è un pezzo di Francesca.