In politica e diplomazia di solito le cose non accadono per caso. Perciò non è un caso che Israele ieri, alla vigilia del voto che deciderà il nuovo presidente degli Stati Uniti, abbia detto in maniera «chiara ed inequivocabile» di opporsi alla Conferenza internazionale per il Medio Oriente che la Francia intende organizzare entro la fine dell’anno a Parigi.

All’emissario francese Pierre Vimont, il negoziatore Yitzhak Molcho e il consigliere per la sicurezza nazionale Yaakov Nagel, hanno spiegato che «Israele non parteciperà ad alcuna conferenza internazionale che sia convocata in contrasto con le sue posizioni», che il progresso vero del processo di pace ed il raggiungimento di un accordo avverranno solo mediante negoziati diretti fra Israele e l’Autorità palestinese» e che «ogni iniziativa diversa non fa altro che allontanare la Regione da quel processo».

Il dopo Obama è già cominciato per Israele. Con il secco no di Molcho e Nagel alla Francia, il premier Netanyahu ha inviato a Trump e Clinton un messaggio molto chiaro: silurate la conferenza di Parigi e impedite un colpo di coda del presidente uscente. Da tempo circolano voci di una vendetta fredda di Obama per l’umiliazione che gli ha inflitto il primo ministro israeliano andando ad arringare (marzo 2015) il Congresso Usa contro l’accordo sul nucleare che l’Amministrazione stava negoziando con l’Iran e per il costante utilizzo degli numerosi amici di Israele ai vertici delle istituzioni politiche statunitensi contro la politica della Casa Bianca.

Netanyahu stapperà la sua bottiglia più costosa per festeggiare l’uscita di scena di Obama. Non che il presidente americano abbia modificato o limitato in qualche modo le relazioni strettissime, strategiche, tra Usa e Israele, anzi ha concesso a Tel Aviv il pacchetto di aiuti militari più generoso mai accordato ad un altro Paese. Però Obama nei rapporti personali e in con diverse dichiarazioni non ha nascosto i suoi mal di pancia per gli atteggiamenti e le politiche di Netanyahu volte a demolire definitivamente l’idea di uno Stato palestinese proclamando allo stesso tempo di appoggiarla, a cominciare dall’espansione senza precedenti delle colonie ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme Est.

«Chiunque sarà eletto le relazioni fra Stati Uniti ed Israele, che già sono solide e forti, non solo resteranno eguali ma anzi si rafforzeranno ulteriormente», ha affermato domenica Netanyahu, con evidente soddisfazione. «Ci aspettiamo che gli Usa continuino a restare fedeli al principio che loro stessi hanno sancito molti anni fa, ossia che il conflitto israelo-palestinese può essere risolto solo mediante trattative dirette senza precondizioni, e ovviamente non con risoluzioni dell’Onu o di altre istituzioni internazionali», ha aggiunto riferendosi a una possibile iniziativa di Obama alle Nazioni Unite che Clinton o Trump dovranno bloccare, pur non essendo ancora in carica.

Netanyahu, come una buona fetta degli israeliani (soprattutto i coloni) e il suo ricchissimo alleato americano Sheldon Adelson, in silenzio tifa per Trump che in campagna elettorale ha promesso di più allo Stato ebraico, a partire dal riconoscimento Usa di Gerusalemme come capitale di Israele. Ma si augura la vittoria di Hillary Clinton più stabile rispetto all’imprevedibile Trump, con una solida esperienza internazionale, maturata prima da first lady e poi come Segretario di stato, e alleata di ferro di Israele.

Si preferisce Clinton anche ai vertici dell’Anp di Abu Mazen. Il presidente e i suoi più stretti collaboratori però tacciono per non perdere la faccia di fronte alla popolazione palestinese che rifiuta Trump e disprezza Clinton e l’intera classe americana schierata sempre e comunque con Israele e contro la legalità internazionale. «Tra gli uomini del presidente prevalgono quelli che preferiscono Clinton perchè la conoscono e mantengono rapporti politici con lei» dice al manifesto l’analista Ghassan al Khatib «eppure la politica dei Democratici si è quasi sempre rivelata sfavorevole ai palestinesi, persino più di quella dei Repubblicani. Lo stesso Obama ha promosso il disimpegno degli Usa dalla questione palestinese e dal Medio Oriente. Trump però genera troppi timori a causa della sua imprevedibilità e delle sue dichiarazioni contro gli arabi e l’Islam». Secondo al Khatib il Medio Oriente dilaniato dalle guerre sarà nei guai in ogni caso. «Dovesse vincere Trump» dice l’analista «vedremo un più intenso impegno militare americano nella regione. Con Clinton invece proseguirà il coinvolgimento minimo degli Usa che non darà alcun benefico alla causa palestinese».
Non bevono per motivi religiosi ma idealmente stappano una bottiglia di champagne assieme a Netanyahu i petromonarchi del Golfo, a cominciare dal saudita Salman che non aspetta altro che l’uscita di Obama dalla Casa Bianca. Vorrebbero vincente Trump, perchè credono che con lui alla presidenza gli Stati Uniti probabilmente lanceranno quelle operazioni militari, contro la Siria e l’Iran, che l’Amministrazione uscente invece ha congelato. Clinton, pensano, seguirà le orme di Obama.