La Corte Suprema ieri ha confermato l’ordine di sgombero di Amona, avamposto coloniale illegittimo anche per la legge israeliana oltre che per quella internazionale. Ma il governo israeliano, con qualche esitazione del premier Netanyahu, non si arrende ed è pronto a correre in soccorso delle 50 famiglie di coloni che vi abitano e che minacciano di resistere sul posto con la forza. Una proposta di legge, presentata da Naftali Bennett, leader del partito ultranazionalista-religioso Casa Ebraica, approvata domenica dal governo, intende avviare una sanatoria retroattiva degli avamposti coloniali ebraici sorti su terreni privati palestinesi in Cisgiordania. Riguarda in modo particolare gli avamposti ebraici nella cui costruzione è coinvolto il governo, tra i quali anche Amona. I palestinesi proprietari delle terre occupate dai coloni e confiscate potranno richiedere un risarcimento finanziario.

Amona è una bandiera per il movimento dei coloni. Nel 2006 l’allora premier Ehud Olmert ordinò la demolizione di alcuni edifici ma il suo passo fu bloccato dopo l’arrivo ad Amona di altre famiglie israeliane. Nel dicembre 2014 la Corte Suprema diede al governo due anni di tempo per sgomberare quei coloni e ieri ha messo in chiaro che non ci sarà un altro rinvio. Un colpo per il governo, composto da ministri che oltre ad essere aperti sostenitori della politica di colonizzazione sono essi stessi residenti in vari insediamenti ebraici in Cisgiordania e intorno a Gerusalemme. Tuttavia la vittoria di Donald Trump ha galvanizzato il ministro Bennett, convinto (come tutta la destra israeliana, e non solo) che il nuovo presidente americano, quando si sarà insediato, spegnerà ogni residua speranza dell’Autorità nazionale palestinese di creare lo Stato di Palestina in Cisgiordania, Gaza, con capitale Gerusalemme Est. Per questo, esorta Bennett, occorre cogliere al volo l’opportunità di aggirare le leggi internazionali e le (blande) restrizioni imposte da Barack Obama e dall’Ue allo sviluppo della colonizzazione dei territori palestinesi. Spetta alla Knesset, dominata dalla destra, dare il via libera. Netanyahu ha definito un atto «infantile e irresponsabile» l’iniziativa di Bennett. Per il premier però è politicamente rischioso rappresentarsi come un moderato. Rischierebbe di esporsi alle accuse di debolezza da parte del leader di Casa Ebraica e della base del suo partito, il Likud, schierata con una colonizzazione senza più alcun freno.

Netanyahu invece non è contrario, anzi appoggia apertamente, un’altra proposta di legge che potrebbe avere gravi ripercussioni per la minoranza palestinese (arabi israeliani) in Israele e per gli abitanti della zona araba di Gerusalemme: il divieto degli altoparlanti nelle moschee, in modo da far tacere i muezzin. Motivo? La protezione della quiete pubblica. Per Netanyahu la chiamata alla preghiera per i musulmani è fastidiosa, quindi da eliminare. Secondo il primo ministro, Israele sarebbe «impegnato a garantire la libertà di culto per tutte le religioni ma ha anche l’obbligo di proteggere i cittadini dai rumori». La misura ha un evidente carattere punitivo verso i musulmani perchè il “rumore” al quale si riferisce Netanyahu interessa solo marginalmente gran parte della popolazione israeliana. La minoranza palestinese vive solo in determinate aree di Israele, quasi sempre separate da quelle popolate da ebrei, e in qualche città mista (dove le moschee sono poche). Il presidente palestinese Abu Mazen ha attaccato l’iniziativa. «Rischia di far sprofondare la regione in un baratro» ha avvertito. Hamas ha protestato con forza mentre i deputati arabi alla Knesset sottolineano che già esiste il divieto sui rumori eccessivi in zone pubbliche e che non c’è necessità di una legge solo per le moschee.