L’anno nuovo si apre come si è concluso: con un bagno di sangue. Ad essere di nuovo colpita è la capitale culturale della Turchia, Istanbul, tetro palcoscenico negli ultimi anni della violenza di ritorno provocata dalle politiche incendiarie del paese nella regione.

Almeno 39 persone sono rimaste uccise, tra cui 15 di cittadinanza straniera, e 65 ferite questa notte in un attacco in un noto club della città, il Reina, frequentato dall’alta borghesia e da star della tv e dello sport: un uomo sui 20 anni, probabilmente straniero, armato di kalashnikov ha aperto il fuoco poco prima delle 1.30 sulla gente – circa 600 persone – che celebrava il nuovo anno. Ed è scappato: al momento, fa sapere il ministro dell’Interno Soylu, è in corso la caccia all’uomo. Erano 25mila i poliziotti dispiegati in occasione del Capodanno solo nella città di Istanbul, proprio per il timore di simili attacchi, mentre otto presunti miliziani dell’Isis venivano arrestati ad Ankara ieri.

Subito è scattata, come sempre in passato, la censura mediatica: il Consiglio Supremo di Radio e Tv ha vietato ai media nazionali di pubblicare foto e video del massacro. E mentre le cancellerie straniere inviavamo messaggi di solidarietà, da Bruxelles alla Casa Bianca fino alla Nato (oggetto di una campagna sottotraccia di delegittimazione da parte dell’alleato turco), il governo di Ankara prometteva una risposta dura. Non sono state per ora mosse accuse, come in passato quando il Pkk è stato subito indicato come responsabile, smentito dalle successive rivendicazioni.

Ma non sembra un caso la tempistica del nuovo attentato, che segue ad una serie di stragi compiute nel corso degli ultimi anni nel paese e che solo nel 2016 hanno ucciso 275 persone. Giovedì è entrata in vigore la tregua nazionale in Siria, dopo l’accordo siglato da Turchia, Russia e Iran. E ieri pomeriggio il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (con il voto Usa) ha accolto la risoluzione presentata da Mosca e che legittima la nuova road map siriana, tre documenti con i quali si indice il cessate il fuoco su tutto il paese, si prevedono gli strumenti di monitoraggio e si apre la strada al negoziato politico in Kazakistan (sulla base di Ginevra II, la conferenza di pace dell’Onu che prevede la creazione di un governo di unità e, entro 18 mesi, elezioni e nuova costituzione).

Secondo quanto ribadito da funzionari russi e turchi, il tavolo negoziale che si aprirà a gennaio ad Astana non sostituirà quello previsto dall’Onu per l’8 febbraio a Ginevra, dopo le rimostranze di alcuni membri del Consiglio che chiedevano di precisare il ruolo delle Nazioni Unite. Ma l’ufficiosa esclusione dell’Onu dal raggiungimento della tregua e quella palese degli Stati Uniti ha già definito il nuovo corso della guerra siriana: a dettare tempi e modalità è l’asse Ankara-Mosca, con la prima interessata a salvare il possibile dalla sconfitta subita contro Assad e la seconda ad imporre il rinnovato ruolo di superpotenza nella regione.

Ma non mancano le zone buie: la Turchia chiude ufficialmente la porta ai gruppi che per anni ha sostenuto e armato perché destabilizzassero il governo di Damasco. Ovvero i gruppi jihadisti, Isis e al Qaeda in testa. Il cessate il fuoco cominciato giovedì, infatti, esclude Stato Islamico ed ex al-Nusra ma anche i kurdi di Rojava, ponendoli sullo stesso piano, nello stesso contenitore “terrorista”.

Già questa notte e questa mattina alcuni media italiani e internazionali paventavano la vendetta kurda come possibile movente dell’attacco al Reina. Una teoria che non tiene conto né del contesto né della strategia dei movimenti indipendentisti kurdi: rarissimo se non assente è l’attentato contro civili nella storia della lotta armata kurda in Turchia. Al contrario, simili attacchi sono il marchio di fabbrica delle fazioni jihadiste che negli ultimi decenni sono divampate nel mondo arabo e in Medio Oriente.

Senza dimenticare il ruolo che i kurdi stanno avendo nella regione nel frenare l’avanzata islamista: se nel nord dell’Iraq e nel nord della Siria l’intervento di Pkk e Ypg ha permesso la liberazione di decine di comunità dal gioco islamista, sono stati proprio i kurdi tra i primi target della macchina da guerra dell’Isis e direttamente o indirettamente di quella turca. A partire dall’occupazione di Kobane passando per l’attentato del 20 luglio 2015 che uccise 30 giovani turchi a Suruc, si è arrivati al terribile massacro dell’ottobre 2015: oltre 100 morti durante la marcia della pace indetta dall’Hdp.

Kurdi nemico comune, dell’Isis come di Erdogan e della sua galassia di gruppi armati impegnati da mesi nella distruzione del progetto di unità di Rojava: qui sono impegnati gli uomini dell’Esercito Libero Siriano, considerati opposizione moderata, ma anche miliziani salafiti e islamisti arrivati in massa soprattutto dopo la ripresa di Aleppo da parte del governo di Damasco.