Premier Italicum, lo ha nomato Ilvo Diamanti. Stiamo parlando di Matteo Renzi, naturalmente. Difficile trovare un epiteto più azzeccato per il presidente del consiglio se gli riuscirà il colpo grosso di portare a casa, tra voti di fiducia, ricatti politici e psicologici, minacce di fine anticipata e traumatica della legislatura, la legge elettorale cui ha legato, inusitatamente, le sorti del proprio governo. In effetti Rosi Bindi ha rilevato quanto sia improprio che un governo ritenga vitale per la propria sopravvivenza un progetto su una materia che dovrebbe essere di squisita pertinenza parlamentare, come la legge elettorale.

Ma non si tratta di una stravaganza o semplicemente di un atto estremo di arroganza. Il problema è che l’Italicum è molto di più e peggio di una legge elettorale, anche se in quanto tale già fa rimpiangere i bei tempi della legge truffa di Alcide De Gasperi, dove almeno il premio di maggioranza veniva dato a chi già ce la aveva per conferimento elettorale.

In realtà con l’Italicum si vuole cambiare nel profondo la natura dello Stato italiano, modificandone la struttura istituzionale, i rapporti tra i poteri, i ruoli dei medesimi senza passare attraverso una esplicita modifica del dettato costituzionale. E’ quanto emerge dalle parole dei suoi stessi inventori e sostenitori, cui conviene prestare la dovuta attenzione. Roberto D’Alimonte deve odiare a tal punto il principio di non contraddizione, da riuscire, nello stesso articolo, a contraddire palesemente sé stesso.

Sul Sole 24 Ore di domenica prima afferma che si tratterebbe di pura sciocchezza considerare l’Italicum come il cavallo di Troia che introduce il presidenzialismo nel nostro ordinamento, dal momento che le norme costituzionali concernenti le figure del presidente del consiglio e del capo dello stato non vengono toccate. Tutti sanno però – e il suo ideatore, cioè lo stesso D’Alimonte, non lo nasconde – che ben difficilmente un partito o una lista possono raggiungere e superare al primo colpo la soglia del 40% che farebbe scattare il premio di maggioranza, in realtà, più correttamente, di minoranza. Il senso della nuova legge è provocare il ballottaggio fra due schieramenti in modo da fare scegliere ai cittadini “direttamente” chi li governerà. In realtà – sia detto qui per inciso- si tratta di una pura illusione o meglio menzogna, dal momento che le politiche dei governi nazionali sono sovra determinate dalle scelte della Ue, come si vede nel caso greco.

Il nostro politologo non si scompone e con nonchalance afferma che se nel ballottaggio «la scelta è tra due leader e due partiti, sarà il leader del partito vincente a diventare capo del governo». E il capo dello stato che cosa ci sta a fare? Non preoccupatevi: la nomina del presidente del consiglio spetterebbe formalmente sempre a lui. Ma sarà una nomina “obbligata”, continua il nostro, che aggiunge: «Dunque è vero: il meccanismo previsto dall’Italicum introduce l’elezione diretta del capo del governo» e questo al di là della forma, perché «in politica la sostanza conta quanto la forma. Se non di più» e quindi «un sistema elettorale potente come l’Italicum influirà … sul funzionamento concreto delle istituzioni della Repubblica, in particolare Parlamento e Presidenza».

Difficile leggere un disprezzo maggiore per le norme costituzionali, le quali verrebbero aggirate e profondamente modificate da una legge elettorale che è pur sempre legge ordinaria. Il presidenzialismo verrebbe imposto per via di fatto, e la modifica formale della Costituzione rimandata a tempi ancora più favorevoli di quelli attuali per la maggioranza renziana. Ancora una volta la volontà dei cittadini è messa sotto i piedi. Non quella virtuale, ma quella democraticamente espressa nel referendum del 2006. Che raggiunse il quorum per quanto non necessario, tanto fu partecipato, e che bocciò la riforma costituzionale votata dalla maggioranza berlusconiana che prevedeva il premierato, cioè l’incremento dei poteri del presidente del consiglio, fra cui lo scioglimento delle camere, e la conseguente diminuzione di quelli del capo dello stato, fra cui la prerogativa prevista dall’articolo 92 della Costituzione, di nominare il primo ministro.