Fu in base a un accordo politico tra le forze parlamentari e in previsione di una possibile modifica del nostro attuale sistema bicamerale che, nel corso della discussione alla camera per l’approvazione delle nuove norme elettorali, si rinunciò ad approvare l’articolo 2 del testo base riguardante le modalità di elezione del Senato. Pertanto, se dovesse concludersi l’iter di formazione della legge elettorale senza un ravvedimento sul punto, a Costituzione vigente, avremmo una normativa elettorale relativa all’elezione della Camera molto diversa da quella del Senato.

A quest’ultimo organo si applicherebbe ancora il sistema definito con la legge n. 270 del 2005 così come risulta a seguito della sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale (il cosiddetto «consultellum»), mentre solo l’altro ramo del Parlamento utilizzerebbe le nuove disposizioni (il cosiddetto «italicum 2»). Si avrebbero di conseguenza due complessi normativi per l’elezione delle camere tra loro totalmente incompatibili, fonte di gravi irrazionalità di sistema. In tal caso, le stesse finalità della riforma elettorale – così intensamente perseguite – finirebbero per venir meno.

Infatti, alla governabilità «assoluta» e certa di un ramo del Parlamento, si andrebbe ad affiancare un Senato con le medesime funzioni (a Costituzione invariata rimane il bicameralismo perfetto) ma formato in base a diversi criteri che «assicurano» un esito difforme. La necessaria conseguenza sarebbe, dunque, quella di provocare una paralisi non solo della governabilità, ma dell’intero sistema politico e parlamentare. In questa ipotesi si potrebbe ben far valere il medesimo principio che ha già portato la Consulta a dichiarare l’incostituzionalità della legge n. 270 (cosiddetto «porcellum»), quando ha rilevato l’inidoneità della normativa (del premio di maggioranza assegnato su base regionale) al raggiungimento dell’obiettivo perseguito della stabilità delle maggioranze parlamentari. Il risultato casuale, determinato dall’irrazionalità e contraddittorietà dei criteri di assegnazione dei seggi, rischia di vanificare l’esito ricercato, ovvero rende impossibile una rappresentanza politica nazionale.

L’incostituzionalità dichiarata dalla Corte ha riguardato in fondo una situazione più circoscritta, concernendo solo la composizione dell’organo Senato, nel nostro caso la paralisi coinvolgerebbe – si ripete – l’intero sistema parlamentare.

Quella che si profila appare, dunque, una legge elettorale manifestamente incostituzionale.

Quest’esito stravagante verrebbe rimesso in discussione se ci dovesse essere una modifica costituzionale che escludesse dal circuito della rappresentanza politica diretta uno dei due rami del Parlamento. Non tanto – si badi – una qualunque modifica costituzionale del bicameralismo perfetto quanto, specificamente, l’abrogazione del Senato (nell’ipotesi di introduzione di un sistema monocamerale) ovvero la conservazione dell’organo senatoriale privato però di una purchessia elettività diretta.

È noto che è quest’ultima l’intenzione sin qui formulata nel disegno di legge costituzionale approvato in prima lettura dal Senato e ora alla Camera.

Il che dà luogo ad alcune considerazione. Primo, dovrebbe essere chiarito che l’auspicio di una futura – e inevitabilmente incerta – modifica costituzionale non può legittimare l’introduzione medio tempore di una normativa ordinaria incostituzionale. In secondo luogo l’accordo politico – peraltro contestato e comunque rimesso alla libertà della dialettica parlamentare – che è alla base dell’affidavit sulla riforma costituzionale ed elettorale (il «patto del Nazareno») può avere una funzione propagandistica o, al massimo, può configurarsi come l’assunzione di un impegno (politico, non giuridico) da parte dei soggetti contraenti ma non gode certo di alcun pregio costituzionale, né può essere fatto valere in sede di giudizio di costituzionalità.

In terzo e decisivo luogo, una legge che produce la paralisi del sistema politico e parlamentare finirebbe per limitare, condizionare o paralizzare molti dei poteri presidenziali, tra cui in particolare quello di scioglimento delle camere. Ed è perciò che – a mio parere – la legge elettorale nella formulazione attuale non solo sarebbe manifestamente incostituzionale ma sarebbe anche difficilmente promulgabile dal capo dello stato.

Posso solo aggiungere che – a tutto concedere – se anche si arrivasse, com’è negli auspici dell’attuale maggioranza di governo e dei suoi alleati politici, a una riforma della Costituzione che prevedesse l’elezione diretta solo per la Camera, i tempi di approvazione delle leggi costituzionali impedirebbero per un tempo indeterminato e non breve la promulgazione della legge elettorale (secondo l’ipotesi ora formulata) ovvero lo scioglimento di entrambe le Camere (semmai fosse promulgata la legge).

Perché mai – viene ingenuamente da chiedersi – questa fretta sulla legge elettorale se essa poi non potrà essere applicata se non dopo (semmai ci sarà) la riforma costituzionale?